Ritrovare
la voce di Jolie Holland, quella voce, che è sempre stata uno strumento
fra gli strumenti, fa un enorme piacere. A maggior ragione se i segnali
artistici intorno a lei mancavano da sei lunghi anni, con un album peraltro
condiviso insieme alla collega Samantha Parton (Wildflower Blues,
2017). Era quindi dal lontano 2014, con l’ipnotico e stridente Wine
Dark Sea, uno dei lavori più coraggiosi della sua parca produzione,
che la cantautrice di origini texane non si esponeva in prima persona,
con tutta quella ammaliante fragilità che l’aveva imposta a inizio carriera
fra le maggiori testimoni del nuovo folk americano.
Haunted Mountain, breve, sfumato e languidamente disteso
sulle sue trasparenti trame ritmiche, è un album che probabilmente subirà
l’inevitabile destino di non essere notato, a dispetto dei suoi effettivi
meriti: una immediata riconoscibilità stilistica, un carattere errabondo
che si colloca fuori dalle mode, come capita sempre più spesso a quei
musicisti che non si allineano allo spirito dei tempi. Nel caso di Jolie
Holland appare ancora più curioso, perché la sua figura è stata in qualche
modo un’anticipatrice e un modello per una generazione di folksinger femminili
che in questi anni si sono riprese il centro della scena: basterebbe tornare
a vent’anni fa, all’esordio fulminante di Catalpa, o all’affermazione
di Escondida, per comprenderne la portata (magari di culto, eppure
essenziale) nell’ampio discorso Americana di oggi. Haunted Mountain
per fortuna trova un megafono nella stretta collaborazione con Buck
Meek, chitarrista e autore ben noto per il lavoro nei Big Thief (e
quanto anche lì echeggia l’insegnamento della Holland...), che firma ben
cinque brani in combutta con Jolie, duetta nel magnetico intreccio di
Highway 72 e ha persino la folle idea,
nata proprio da uno scambio di battute con la Holland, di intitolare il
suo recente album solista con lo
stesso titolo, Haunted Mountain.
Anche l’omonima canzone è condivisa dai due, qui resa in un effluvio alternative-country
spezzato da una acidula chitarra elettrica che ricorda il più ispirato
Jeff Tweedy. Ma è tutto il disco a fluttuare fra diversi poli di attrazione:
le tonalità inconfondibili del canto della Holland, seducente e dal fraseggio
caratteristico, il solido eppure scarno impianto folk della scrittura
e le divagazioni d’atmosfera del trio coinvolto in studio, completato
dalle presenze di Adam Brisbin e Justin Veloso. Potranno legittimamente
apparire evanescenti queste canzoni, attraversate peraltro da una forte
impronta “politica” nei testi (dal potere maschile alle martoriate condizioni
dell’ambiente, all’oppressione del colonialismo moderno), ma la ragione
principale del loro fascino sta proprio nel seguire quell’intrigante habitat
sonoro creato dal gruppo, che in un paio di occasioni tracima persino
in soluzioni inedite: accade con la spiazzante (e assai indovinata) onda
ritmica di una spettrale Feet on the Ground,
dove il canto folk blues di Jolie incontra il battito elettronico del
trip hop, o nel finale di What It’s Worth,
che allarga le maglie della tradizione da cui parte l’autrice per abbracciare
un indie folk quasi impalpabile, tra chitarre letargiche sullo stile Cowboy
Junkies e un tenero fischio in sottofondo a dare il saluto.
Tutto quello che avanza ci appare familiare ed è espressione della strada,
in ombra e sempre un po' vagabonda, che Jolie Holland ha percorso per
tutte queste stagioni, magari facendo anche sparire le sue tracce, dal
Texas sconfinando a Vancouver, passando per l’accogliente comunità artistica
di Portland e l’amata New Orleans: in tal senso il dolce cullare di 2.000
Miles lo prendiamo come un manifesto esistenziale, e non bastasse
ancora ci sono sempre i sussurri jazzy di One of You, la carnalità
country gospel di Me and My Dream e quella blues di una Orange
Blossoms che fantastichiamo già in un improbabile versione fianco
a fianco con Tom Waits. Bentornata.