Partiamo
subito da una avvertenza: se già avete incontrato la musica di Joe
Henry, e l’avete giudicata noiosa, fermatevi pure, perché i complimenti
che si possono fare ad un disco come All The Eye Can See di
certo non passano attraverso concetti di divertimento ed energia. La seconda
avvertenza che si deve fare è che sì, il presupposto emotivo che
ha anticipato l’album, e cioè l’annuncio dato dallo stesso Henry di un
cancro alla prostata particolarmente insidioso che ne ha condizionato
l’attività negli ultimi anni, è ovviamente il macigno che pesa sopra queste
nuove canzoni. Il rischio è patire un po’ di quello che chiamerei “l’effetto
Blackstar/Bowie”, lo stesso che per esempio fece sì che il mondo si accorgesse
di Warren Zevon quasi solo in occasione di un album registrato già con
la morte al suo fianco come fu The Wind.
Insomma, la valutazione potrebbe passare in secondo piano rispetto alla
vicenda umana che permea l’album, ma anche prendendosi questo rischio,
possiamo dire che Henry qui ha trovato la forza di tirar fuori alcune
delle sue migliori canzoni da tempo. La sua carriera ha in fondo un prima
e un dopo, dove il prima è delimitato dall’album Civilians
del 2007, ultimo di una inarrestabile carrellata di dischi eccezionali,
iniziata nel 1990 con Shuffletown, in cui un apparentemente normale
cantautore di roots-music si è trasformato, disco dopo disc,o nel poliedrico
e geniale produttore (per sé stesso e per altri) di album come Scar
o Tiny Voices, dove canzone d’autore, sperimentazione, jazz, e
tanto altro convivevano alla grande. Negli anni dieci però i suoi dischi
si erano ritirati nell’angolo della tradizione folk, sbandierata anche
in occasione dell’incontro
con Billy Bragg nel 2016, e alla fine l’Henry sentito in album come Reverie
o Thrum
è stato un artista concentrato più sulla canzone che sulla sua resa, ed
è innegabile che anche un lavoro come The
Gospel According to Water possa essere sembrato anche fin troppo
estremo nel suo essere spartano.
Paradossalmente il merito di All the Eye Can See, da un punto di
vista produttivo, è che non cambia affatto la rotta, ma semplicemente
stavolta si preoccupa anche di comunicarla in maniera più diretta. Resta
un disco difficile, da ascoltare in silenzio e a luci soffuse, e Henry
richiederà la vostra attenzione per farsi apprezzare. L'autore stesso
presenta il disco quasi chiedendo scusa per essersi permesso di aver parlato
per la prima volta di sé e del suo rapporto con quel confine tra vita
e morte che un malato deve vivere ogni giorno, tanto più se poi nell’album
viene coinvolto significativamente il figlio Levon Henry, che segna spesso
il suono con il suo sax e il suo clarinetto. Il quartetto che lo ha raggiunto
nel suo studio casalingo durante le tante convalescenze è poi completato
David Piltch al basso, Patrick Warren al piano e John Smith alla chitarra,
ma a trovarlo per un aiuto sono poi arrivati gli amici di una vita, come
Marc Ribot, Bill Frisell e Daniel Lanois. Ma ovviamente il protagonista
rimane lui, e il suo racconto, il fatto che se ha ancora senso scrivere
canzoni nel 2023 è perché forse non esiste modo migliore per comunicare
il dolore senza provocare o una naturale indifferenza difensiva, o l’esagerata
commozione di chi ha paura di non sembrare abbastanza empatico.
In questo All the Eye Can See potrebbe essere la risposta moderna
a Magic And Loss di Lou Reed, a dimostrazione che il dolore è sia
di chi soffre il male, sia di chi gli soffre accanto. "There will come
a day and soon, this cold parade is over” canta Henry in Red Letter
Day, ma finché avrà la forza di cantare queste canzoni, questa parata
non potrà mai davvero essere così fredda.