inserito 20/09/2007

Joe Henry
Civilians
[Anti  2007]

Era scritto nel destino che Joe Henry tornasse al cuore delle sue canzoni, che facesse insomma tabula rasa delle conquiste sonore, attuate nel precedente percorso artistico, per trovare una nuova chiave di interpretazione, più essenziale. Civilians nasce appunto con l'intenzione di riappropriarsi delle strutture sostanziali della sua scrittura, un bagno nel fiume del folk rock da cui era partito, mantenendo peraltro tutto il bagaglio di esperienze e conquiste fatte in questi anni da musicista e produttore, ruolo quest'ultimo che lo ha visto svettare da assoluto protagonista (da Solomon Burke a Mavis Staples all'ultimo Loudon Wainwright III, qui ospite ai cori). Il passato recente di Scar e Tiny Voices - vertici di una ristrutturazione in chiave astratta, jazzy e cinematografica delle sue radici di folksinger - non è rinnegato, eppure Joe Henry ha intelligentemente compreso che da quella porta non sarebbe passato più nulla: il viaggio si era spinto al limite, da li si poteva proseguire soltanto scavando in profondità. Per questo Civilians è una ripartenza, sempre ammantato da liriche che dall'interno leggono l'esterno, la realtà americana e non solo avvolta in testi tra inquietudine e ironia, di un acume descrittivo sempre più raro. Una volta trovata la sua vera voce Joe Henry l'ha afferrata e si è aggrappato ad un mood di cui è diventato indiscusso maestro. Ne sono prova queste canzoni di eleganza al limite quasi del formale: fa quasi rabbia constatare la perfezione dei contorni di Parker's Mood e Civil War, così come le avvolgenti candenze per chitarra e mandolino in Scare Me to Death, e ancora assaporare i tratti swingati, notturni della stessa Civilians e di Time is a Lion, con quell'esplosione corale che lega il "sabato notte" di Tom Waits con i mille folksinger che devono avere occupato la gioventù dello stesso Henry. Uno di questi era senza dubbio Loudon Wainwright, di cui viene ripresa la dolcissima You Can't Fail me Now, già apprezzata all'interno del recente Strange Weirdos e qui accomodata con fedeltà da un Joe Henry che non ha mai cantato così bene. Lo ha stimolato la presenza di una squadra collaudata, musicisti con cui ha creato da tempo una sintonia invidiabile: le chitarre da Oscar di Bill Frisell e Greg Leisz, impeccabili eppure defilate, distinte e sobrie, il piano del bravisismo Patrick Warren e la presenza fugace del maestro Van Dyke Parks. Il suono parco, distillato di questi signori delle sette note infonde consapevolezza all'attore principale, che torna persino a sfiorare la compiutezza acustica di Shuffletown, la sua prima meraviglia discografica, in Our Song e Shut Me Up, prima di riprendere quell'inconfodnbile crooning da ora tarda in I Will Write my Book e nella strepitosa chiusura da chansonnier di God Only Knows. Dopo avere letteralmente spostato in avanti, con passi affascinanti, le coordinate della canzone d'autore americana, oggi più che mai Joe Henry può alzare la testa e ribadire la sua autorevolezza.
(Fabio Cerbone)

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