Dodici anni sono forse pochi
per fare il resoconto di una carriera, ma Topaz, il sesto
album di Israel Nash, sembra già voler suggerire la fine di un percorso
che abbiamo seguito fin dal suo esordio del 2009 (New York Town).
Quello che ai tempi ci sembrò essere solo un buon clone di Ryan Adams,
ci aveva poi ben impressionato con il passo successivo Barn
Doors and Concrete Floors del 2011, in cui la produzione dell’ex
Sonic Youth Steve Shelley aveva trovato un perfetto equilibrio tra la
struttura classica delle sue canzoni e la necessità di dimostrare una
personalità propria. Album tra i migliori del decennio scorso per quanto
ci riguarda, al quale fece seguito un comunque convincete Israel
Nash's Rain Plans nel 2013, in cui prendeva piede una certa
voglia di ripercorrere le strade di Neil Young, anche nella dilatazione
dei tempi.
A quel punto Nash deve aver deciso di voler uscire dalla gabbia dell’immagine
del cantautore post-classic rock, e così, tagliato anche il secondo cognome
usato per firmare i suoi primi lavori (Gripka), quasi a voler ribadire
una nuova identità, ha provato a far crescere la propria musica. Israel
Nash's Silver Season del 2015 allargava gli orizzonti e i minutaggi
strumentali nella direzione di uno rock lisergico che invadeva il campo
di Jonathan Wilson o della Chris Robinson Brotherhood, perdendo di vista
però le canzoni, difetto che Lifted
del 2018 ha provato a correggere, non trovando ancora la perfetta quadratura,
nonostante gli abbia portato i primi riconoscimenti anche al di fuori
del mondo della roots-music. Topaz, album che già era stato in
parte anticipato da un ep nei mesi scorsi, pare invece ritrovare la strada.
Israel Nash non è più il rauco cantautore degli esordi, e permane
in queste canzoni quello stile un po’ “dark” e levigato “alla War On Drugs”
che ha fatto da padrone nelle produzioni indie più di successo di questi
ultimi anni, ma la svolta arriva dall’inserimento di una sezione fiati
nel grande magma strumentale ancora una volta proposto, che fin dalla
iniziale Dividing Lines
suona non tanto come elemento di continuità con la tradizione,
quanto come un puro oggetto di disturbo, se non proprio di rottura.
L’effetto all’inizio stordisce, perché le atmosfere da cantautore oscuro
di Closer o Howling Wind sembrerebbero richiedere essenzialità,
e non certo l’effetto maestoso che una sezione fiati inevitabilmente porta
ad un arrangiamento, ma questo è proprio ciò che rende speciali questo
pugno di canzoni. Nash ha prodotto tutto da solo in uno studio di registrazione
casalingo, in cui ha fatto stare a fatica i tanti musicisti coinvolti
nella registrazione in diretta, con pochissime sovra-incisioni in post-produzione,
e ha fatto davvero le cose per bene, perché brani come Canyonheart,
Stay o Southern Coasts non perdono di vista l’importanza
della scrittura (i testi sono molto personali e pieni di dolore, anche
se non si fa mancare qualche polemica di stampo politico come in Indiana)
e della melodia, ma osano qualcosa in più in termini di arrangiamenti,
con il risultato di una sorta di wall-of sound sospeso tra rock e gospel
(non mancano anche i cori d’altronde…), che è in fondo solo l’estremizzazione
di quello che già aveva accennato così brillantemente nel suo secondo
album.
È probabile che un giorno Nash sentirà nuovamente la necessità di quella
semplicità del suo ancora oggi godibilissimo esordio, ma il suo percorso
pare voler aggiungere un nuovo elemento ad ogni tappa, senza mai voler
rinunciare alle precedenti, e Topaz ci sembra essere il
capitolo più riuscito di questa escalation verso una sua concezione di
“rock totale” e che potrebbe anche non essere finita qui.