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american cosmic music di
Fabio Cerbone (31/07/2018)
Coloratissima,
dall'immaginario pop, la copertina di Lifted annuncia l'ennesimo
cambio di registro nella musica di Israel Nash, che già aveva abbandonato
parte del cognome, Gripka, quasi a sottolineare un nuovo percorso artistico rispetto
agli esordi. Noi continuiamo a ricordarlo con nostalgia per l'exploit di Barn
Doors and Concrete Floors, e forse dovremmo archiviare quell'impennata
di roots rock da strada maestra come una semplice parentesi dell'artista, che
nel frattempo si è lanciato nelle trame younghiane e psichedeliche del successivo
Rain Plans, fino a toccare le ambizioni da country cosmico californiano di Israel
Nash's Silver Season, ad oggi il suo album più controverso e distante
dalla forma canzone che ne aveva imposto il talento.
Ci si può sbagliare,
o forse meglio si possono fare scommesse troppo grandi sugli autori che passano
dalle nostre pagine: questione di buona fede, sia detto, e anche di eccessivo
entusiasmo. Così Lifted rimette qualche pedina a posto, e abbassa le aspettative.
Riprende però ballate e progressioni di accordi familiari, proseguendo
su un percorso che è assai confuso, ridondante negli arrangiamenti per archi e
fiati curati insieme a Jesse Chandler (Mercury Rev, Midlake) e al produttore Ted
Young (Gaslight Anthem, Kurt Vile), lì dove scrittura country rock incrocia psichedelia
e pop dai riflessi sixties, scomodando la pittoresca descrizione di "Hippe spiritual".
Un disco e una manciata di canzoni pensate per innalzare lo spirito, così le descrive
Israel Nash, di fronte al clima sociale e politico dell'America attuale. Le ha
disegnate nel suo studio casalingo, costruito con le sue stesse mani - Plum Creek
Sound presso Dripping Springs, Texas - luogo dove si è straferito da qualche anno,
dopo avere respirato l'aria newyorkese in gioventù.
La band segue questa
sorta di escapismo rock che pervade il songwriting del corpulento Israel e al
traino di una breve Intro strumentale lancia il manifesto di Rolling
On. Sound avvolgente fra organo e voci, riverberi al massimo, una batteria
dal sapore meccanico, il nuovo flusso porta dritti verso una certa sovrabbondanza
di suoni, che in Looking Glass, sentori di Beach Boys in lontananza, inghiotte
la voce di Nash fin quasi a farla sparire nell'insieme. Meglio tornare alla consuetudine
del country rock di Lucky Ones, Neil Young
nel cuore, virandolo poi nelle screziate note di Sweet Springs e fra le
spaziali atmosfere di SpiritFalls, la vocalità particolare, strozzata e
sottile, di Israel Nash al centro di ballate che lavorano per aggiunta e stratificazioni,
tingendo di sonorità psichedeliche la sua penna tradizionalista. E qui francamente
qualcosa non torna, perché qualche freno in più, fra echi esagerati e arrangiamenti
sovraccarichi, avrebbe giovato alla riuscita della varie Hillsides, The
Widow e Strong Was the Night, accompagnandoci con moderazione al finale,
sempre in fregola di americana cosmico, di Golden Fleeces.
Occasione mancata? Non del tutto, perché l'impressione è che Israel Nash
creda davvero tantissimo a questo metodo di scrittura, immerso nelle tecniche
del suo studio di registrazione. Va da sé che noi lo avremmo preferito
in una veste più equilibrata.