Esiste una discussione a
livello globale intorno all’uscita di Wednesdays di Ryan Adams
che va oltre la questione musicale, e che potrebbe anche non interessarci,
se non fosse che questo disco è uscito con parecchi mesi di ritardo, e
ciò pesa non poco nel collocarlo nella sua carriera. L‘album, infatti,
doveva essere il secondo di un trittico di nuovi lavori che in qualche
modo completava un viaggio di ricerca e autoanalisi riguardo il proprio
rapporto con la vita e l’amore, che era iniziato con Ashes
& Fire del 2011, e che aveva avuto col precedente Prisoners
il suo capitolo più sofferto e travagliato (e forse anche il meno riuscito
dei suoi anni Dieci). Se poi il 2021 sarà l’anno in cui potremo gustarci
la mole di musica prodotta da Adams tra il 2018 e il 2019 forse lo sapremo
a marzo, quando Wednesdays vedrà realmente la luce in formato
fisco.
Ma se ne parliamo già oggi è perché lo stesso Adams ha probabilmente voluto
sondare il terreno prima di tornare in scena, capire le reazioni del pubblico
al nuovo disco di un artista coinvolto in vicende che interessano la giustizia
e non una rivista musicale, e quindi ha reso disponibile il disco già
da dicembre su una piattaforma di streaming. Per cui resteranno delusi
quelli che vorrebbero sapere se l’esilio dal palco, forzato dallo “shitstorm”
di cui è stato fatto oggetto un anno fa, ha generato una serie di risposte
in musica rabbiose o pentite, perché in queste canzoni c’è ancora l’Adams
di tre anni fa, quello che non trovava pace tra la sua indole vulcanica
e difficile da gestire anche per sé stesso, e una potenza emotiva nell’esprimere
il proprio amore non comune. Di certo, ascoltando Wednesdays non
si può restare indifferenti all’inizio da K.O. di I'm
Sorry and I Love You e Who Is Going to Love Me Now, If Not
You, due titoli che già dicono molto della sua maniera tormentata
di vivere le relazioni con l’altro sesso, ma che rappresentano anche una
nuova conferma del fatto che non esiste nessuno bravo come lui a coniugare
tradizione, fruibilità pop e genuina espressione del dolore.
Tre elementi che Adams sa dosare sempre alla perfezione, non arrivando
a sembrare mai lamentoso senza essere anche cantabile e immediato, come
una canzone di quegli Smiths di cui resta sempre un evidente e dichiarato
debitore, e senza perdere di vista il fatto che ha una facilità a scrivere
ottimi standard di folk/rock/country (chiamatelo come volete) americano,
che pochi possono vantare oggigiorno. Questo sì che ci interessa, registrare
come Adams abbia davvero raggiunto l’età della maturità, in cui ha smesso
di dover dimostrare a tutti qualcosa, arrivando anche a sbagliare disco,
come ha spesso fatto in passato, se è vero che negli ultimi dieci anni
l’esperimento di 1989 del 2015 sembra essere stato l’unico colpo
di testa, e tra l’altro pure riuscito più che discretamente.
Basterebbero le prime due canzoni per promuovere Wednesdays come il giusto
sequel del bellissimo self-titled
del 2014, ma anche nel prosieguo dell’album non mancano i momenti significativi
come la title-track, Birmingham, Walk
in the Dark e il toccante finale di Dreaming
You Backwards. I brani sono solo 11, mentre quando a inizio
2019 Adams annunciò la trilogia, Wednesdays ne prevedeva 17, il
che ci fa pensare che nei prossimi anni, se la valanga di fango (giusta
o sbagliata che sia) non lo soffocherà, saremo invasi da una mole di nuove
canzoni difficilmente gestibile anche per chi lo segue. Una fatica che
affronteremo volentieri, se le premesse sono queste.