Ryan Adams
Ryan Adams
[
Pax Am/ Columbia
2014]

www.paxamrecords.com

File Under: streets of fire

di Fabio Cerbone (08/09/2014)

Un colpo di spugna, l'idea che da qui parta l'ennesima variazione sul tema, perché alla fine, come tutti gli autori di una certa categoria, spesso non si tratta che della stessa fotografia vista da angolazioni diverse. Intitolare il nuovo disco con un semplice Ryan Adams dovrebbe però significare qualcosa di specifico, una ripartenza, una fiducia nel futuro, ma trattandosi di uno dei songwriter più indisponenti, talentuosi e dispersivi della sua generazione, tutte le supposizioni vanno a farsi benedire. Di sicuro c'è che Ryan Adams ha da tempo chiuso l'avventura fruttuosa con i Cardinals, ha anche detto addio al produttore Glyn Johns e alla possibilità (così si vociferava) di un secondo tempo di Ashes&Fire, e si è rintanato nei suoi personali studi con il collaboratore Mike Viola e una nuova band per smuovere ancora una volta il suo album dei ricordi.

Si, perché Ryan Adams, al netto di tutto lo spleen, l'insoddisfazione e l'intensità che spesso traspare nei testi del nostro, forse un adolescente mai davvero cresciuto, è un album che sembra evocare un'altra delle stagioni musicali che hanno formato il musicista. Sappiamo bene dei suoi progetti paralleli, spesso inconcludenti quando non molesti, dedicati ai linguaggi del punk o dell'hevy metal, ma oggi il suo obiettivo è semplicemente quel 'classic rock' che ha sempre lambito, di cui si è cibato dai tempi dei Whiskeytown, nascondendolo tra un codazzo di pedal steel ed elegie country o in certi suoi lavori solisti come Gold (per il versante 70s) e Rock'n'Roll (per gli anni 80). Ecco, Ryan Adams è forse un figlioccio del secondo citato, ma molto più coerente e denso di grande musica. È un disco innanzi tutto di suono (l'attendista, avvolgente Shadows e il suo finale lancinante di feedback) e solo in un secondo momento di canzoni, che magari non avranno dalla loro il colpo del ko come in passato (eppure Trouble è un guitar rock ai limiti della perfezione assoluta), ma possiedono un'uniformità invidiabile, rendendolo il lavoro più interessante della sua carriera da diversi anni a questa parte.

È l'organo dell'ospite Bemmonth Tench (non a caso…) e il riff bluesy di Gimme Something Good a suggerire questo percorso, chitarre imbevute di riverberi e un nobile rock "da stadio", tagliato su misura nel ricordo degli Heartbreakers dei primi anni Ottanta. Sembra infatti sbucare dal periodo Hard Promises/ You Got Lucky, un po' come le batterie metronomiche, gli orizzonti da "big sound" e la ricerca ostinata del gancio elettrico in Kim, Stay With Me e Feels Like Fire (che piacerebbe anche agli ultimi War on Drugs). Non ci si può sbagliare, la stagione rievocata è quella, dallo Springsteen al bivio del successo planetario (I Just Might cavalca al passo di un riff che sembra aggiornare in chiave rock State Trooper) fino agli eroi "minori" che Adams non ha mai nascosto di adorare: in primis il mentore Paul Westerberg, che ritorna nelle ballate Tired of Giving Up e Am I Safe, dove l'intreccio tra acustico ed elettrico non emergeva così nitido da molto tempo, e magari un vero loser dimenticato come Tommy Keene, la cui inconfondibile espressività, combattuta tra power pop e rock dalle trame hard, pare aleggiare come uno spirito in alcuni anfratti di questi solchi.

Sarà un dolce effetto di nostalgia, sarà la mancanza cronica di songwriter che oggi abbiano voglia di maneggiare questa materia abusata, ma se american rock'n'roll deve essere, allora nel 2014 Ryan Adams ha posto ancora la sua firma in calce.


    


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