Ryan
Adams Ashes & Fire
[Pax
Am/ Columbia/ Sony
2011]
Certo
che fa impressione, dopo anni di testi gonfi di rabbia e risentimento (sensazioni
talvolta tradotte in titoli di canzoni e dischi al limite dell'insulto), ascoltare
Ryan Adams mentre canta cose come "la gentilezza non ha bisogno d'altro
/ che di una mente aperta" (Kindness). Eppure
anche per lui dev'essere arrivato il momento di fare i conti con il tempo che
passa: lo dice a chiare lettere Ashes & Fire, tredicesimo album
solista di una carriera che in poco più di undici anni ha spesso spiazzato, stupito
e di quando in quando persino irritato, ma lo ha sempre fatto invitando appassionati
e semplici estimatori a uscire dal guscio protettivo delle proprie certezze. Rispetto,
quindi, a una galleria di antefatti volti a stabilire un contatto quasi diretto
con l'umore dell'uomo piuttosto che con le peculiarità del musicista, Ashes &
Fire si presenta, forse per la prima volta, come il resoconto meditato di diverse
fasi di passaggio, la trasfigurazione artistica non più di uno stato d'animo passeggero,
ancorché particolarmente spontaneo o bruciante, bensì di una metamorfosi creativa
ed espressiva che è lecito supporre sia destinata a durare.
Fatti i conti
con i problemi di salute (soffre da diversi anni della sindrome di Ménière, sintomatologia
provocante periodici attacchi di sordità, vertigini e nausea), ricacciate in un
angolo le dipendenze (l'ultima, aggravatasi dopo la morte della madre, da anfetamine),
elaborato il lutto per la morte del bassista dei suoi Cardinals (Chris "Spacewolf"
Feinstein, scomparso nel 2009, a soli 42 anni), Ryan Adams ha trovato una nuova
coerenza di stile, una nuova armonia di intenti e soluzioni elaborata ricorrendo
al pianoforte di Norah Jones e all'organo sontuoso di Benmont Tench
(uno dei pilastri degli Heartbreakers di Tom Petty), alla sezione ritmica immacolata
e sognante di Jeremy Stacey (tamburi) e Gus Seyffert (basso) e alla produzione
vintage di Glyn Johns (una volta tanto erede del figlio Ethan, e non viceversa).
Peraltro, la scelta di un vecchio leone dei cursori come Johns (in passato collaboratore
di Beatles, Stones, Who e chi più ne ha più ne metta) non risponde certo alla
sola opportunità di sfruttarne il prestigio araldico in senso commerciale. L'obiettivo
di supervisore e assistito, perfettamente centrato, era infatti quello di modellare
un suono caldo e brillante, con gli strumenti acustici in primo piano e una sensazione
di incantevole abbandono folkie a cucire tra loro le canzoni, dall'incalzare rootsy
della title-track alla compostezza degli archi presenti su Rocks
o Save Me.
Nonostante il nostro combatta
da sempre con l'etichetta di portabandiera di un fantomatico "nuovo country",
anche nel programma di Ashes & Fire di country in senso stretto, a meno di non
voler considerare tale qualsiasi intervento della steel-guitar (Greg Leisz, al
solito impeccabile), non c'è traccia. Ci sono invece undici grandi ballate, ora
più movimentate (Dirty Rain, Chains
Of Love) ora più raccolte (Come Home,
Kindness), rimandi alle gloriose melodie
dei Fletwood Mac targati '70 (Do I Wait, Lucky
Now) e persino un tentativo, delizioso nel suo intrecciare pianoforte
jazz e sei corde folk-rock, di scrivere la propria Always On My Mind (I
Love You But I Don't Know What To Say). L'atmosfera è quella che dominava
su certi dischi sbucati dalla California di trenta e rotti anni fa, un punto di
intersezione tra la pensosa sensibilità di Jackson Browne e il Dylan inquieto
e romantico di Blood On The Tracks. La certezza è quella che, sotto "fuoco e ceneri",
si alimentino calore, dolcezza e brani magnifici in quantità sufficiente ad affrontare
il più rigido degli inverni. (Gianfranco Callieri)