La
storia romantica dell’artista dimenticato e poi riscoperto dopo anni ce
la siamo già raccontata, su chi sia Bill Fay e quale sia stata
la sua vicenda discografica ne avevamo infatti già parlato in occasione
del disco del grande ritorno Life
Is People (2012). Un album fondamentale per questi "anni
dieci", per come ha saputo, molto meglio di altri, tracciare un filo
conduttore tra certo cantautorato dei primi anni Settanta e l’indie-folk
dei 2000. Secondo il vecchio motivo che dice “squadra che vince non si
cambia”, Fay ci ha preso gusto e ha confermato il produttore Joshua Henry
sia per il seguito Who
Is the Sender? del 2015, sia per questo terzo capitolo, intitolato
Countless Branches.
Non cambia neanche la formula a dire il vero, basata su canzoni lente
e strascicate, alle quali Bill si attorciglia con disperazione con la
sua voce sofferta e incerta, alternandosi al piano o alla chitarra acustica.
Se il secondo capitolo aveva forse dei momenti in cui il gioco pareva
passare leggermente il limite dell’autoindulgenza, questo terzo episodio
pare invece più centrato ed essenziale. Stavolta non ci sono grandi ospiti
e nemmeno significative cover di riappacificazione con la modernità come
fu la splendida Jesus Etc. dei Wilco presente nel citato Life Is
People, ma dieci brani che Fay ha scritto nel corso della sua lunga assenza,
e che non aveva mai avuto la motivazione giusta per finire e registrare.
Il che fa capire subito che questo nuovo album ha una dimensione, se possibile,
ancora più intima, quasi da demo casalingo (a parte la presenza della
chitarra di Matt Deighton). I
l lavoro sui suoni non è comunque indifferente, e l’aria che si respira
ricorda molto quella delle session acustiche che Rick Rubin fece fare
ad autori come Johnny Cash o Neil Diamond. Brani brevi (solo due su dieci
superano i 3 minuti), con una durata complessiva molto limitata, che la
deluxe edition allunga a 47 minuti inserendo anche alcune versioni alternative,
tra le quali vanno segnalate le registrazioni con band di Love
Will Remain e How Long, How Long, le quali, insieme
all’inedito Tiny, fanno capire che era stata presa in considerazione
una versione elettrica del disco abbandonata a favore di sound più scarno.
Fay, nonostante la ruggine accumulata negli anni passati lontano dagli
studi di registrazione, sembra davvero aver ritrovato uno stato di grazia
invidiabile, come ben evidenzia Salt of The Earth,
forse l’highlight del disco, che evidenzia la struttura sostanzialmente
gospel suoi dei brani.
Disco non per tutti, che semmai conferma in maniera ancora più estrema
l’involuzione nella sfera personale della musica moderna. Là fuori d’altronde
il mondo va a rotoli, ma Fay continua a far parte di chi assiste con l’addolorato
stupore cantato in Filled With Wonder Once Again, chiedendosi “Come
può questo mondo tenere un uomo incatenato?”, e non cercando neppure di
darci la risposta.