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lost gems from the Golden Age of Rock and Roll di
Nicola Gervasini (01/10/2012)
In
certi casi bisogna fare molta attenzione prima di spellarsi le mani in sonori
applausi. L'esaltazione collettiva obbligata è una malattia che attanaglia la
letteratura rock da più di dieci anni, più o meno da quando in mancanza di una
grande storia da raccontare si scivola spesso nella tentazione di crearsene qualcuna
ad hoc. Un metodo ad esempio è stato quello di scandagliare il grande mare di
artisti minori di quarant'anni fa, una lunga lista di one-chance-artists (ad esempio
Paul Pena o Rodriguez) che le crudeli leggi del mercato avevano condannato all'oblio
dopo uno o due titoli. Storie oggi inimmaginabili in una scena rock dove chiunque
pubblica quello che vuole, dove vuole e quando vuole, e dove magari anche un giovane
Bill Fay a questo punto avrebbe già prodotto una decina di album a spron
battuto. Invece il povero Bill nel 1967 era un giovane autore che la Decca mise
sotto contratto senza troppo pensarci, salvo poi scoprire di non saper bene cosa
farsene. Ebbe la sua occasione con il disco d'esordio nel 1970 e un secondo tiro
pubblicato solo per necessità contrattuali nel 1971 (persin più bello del primo
e sibillinamente intitolato Time of the Last Persecution), e poi il dimenticatoio.
Due album che non avrebbero comunque mai cambiato le sorti di un rock
che allora viaggiava troppo veloce per attendere la maturazione di un ragazzotto
dalla voce sgraziata, ma ugualmente consigliatissimi anche oggi. Il mondo li ha
scoperti nel 2005, quando Uncut osannò le ristampe in cd presentandoli come "l'anello
mancante tra Nick Drake, Ray Davies e Bob Dylan". Il rischio che il nuovo mondo
indie-rock si fosse innamorato più della barba decisamente fashion sfoggiata nella
copertina del secondo capitolo che di quelle incerte ma toccanti canzoni era alto,
ma in verità la riscoperta è stata opportuna e doverosa. La paura però era che
l'insistenza di Jeff Tweedy perché l'arrugginito Bill tornasse in studio fosse
più un atto di devozione che una vera necessità, visto che il materiale inedito
inevitabilmente pubblicato nel frattempo non aveva dato l'idea che poi ci potesse
essere molto di più. Invece sarà che Life Is People nasce ben pensato
e confezionato nella veste sonora pensata da Joshua Henry, ma alla fine questo
ritorno convince decisamente di più di altre analoghe riesumazioni sentite in
questi anni (Vashti Bunyan o Gary Higgins ad esempio). Niente di speciale in verità:
solo un uomo che sorprendentemente dimostra un gran mestiere e una capacità di
rendere meravigliosa un voce secca e poco espressiva, quasi che avesse passato
gli ultimi decenni a calcare le scene e non occupato in chissà quale lavoro per
campare.
Tweedy viene a trovarlo e gli lascia in eredità una Jesus,
etc, che lui stravolge al piano e rende pienamente sua come solo le
grandi personalità sanno fare. Ma sono le sue composizioni a colpire, profondamente
tragiche (There Is A Valley o The
Healing Day), ma anche piene di una gran serenità (la maestosa Cosmic
Concerto), quasi a voler dirci che poi l'assenza dal music-business
è vissuta come una condanna più da noi fans che da lui che l'ha subita con gran
compostezza. Brani straordinari come This World
ricordano molto la collaborazione tra Roky Erickson e gli Okkervil River, mentre
le intricate orchestrazioni di City Of Dreams
testimoniano la gran modernità della sua musica. Non tutto è perfetto (la faticosa
Big Painter, posta in seconda posizione, rompe subito un po' la tensione
ad esempio), e soprattutto spesso non si va poi molto oltre la registrazione casalinga
fatta con vecchi amici (il chitarrista Ray Russell e il batterista Alan Rushton
erano con lui anche nel 1971), se non fosse per quella strana bonus track (Home
Was The Place) che lo vede perfettamente a suo agio in un sofisticato
arrangiamento quasi da lounge-music che potrebbe anche far intravedere un diverso
sviluppo della sua carriera. Che a questo punto ci auguriamo davvero possa ripartire
da qui con più regolarità.