Georgiano partito in cerca di fortuna per la California
(Los Angeles, dove ha inciso il suo esordio) e poi approdato per forza
di cose a Nashville, Brent Cobb è uno dei giovani songwriter più
interessanti dell’ultima nidiata country. Il suo stile “laid back”, con
forti radici sudiste e un clima generale che riporta tanto alla canzone
roots d’autore degli anni Settanta quanto al movimento dei cosidetti Outlaws,
aveva impressionato favorevolmente dopo la pubblicazione di Shine
on Rainy Day, disco del 2016 che aveva ricevuto una nomination
come 'Best Americana Album', e soprattutto del più elettrico Providence
Canyon (2018). Quest’ultimo, grazie anche alla produzione del
noto cugino Dave Cobb, nome di punta nel settore e richiestissimo sulla
piazza, aveva acquistato un suono più risoluto, flirtando con il southern
rock, con ballate che ricordavano JJ Cale e i dischi solisti di Gregg
Allman, oltre allo stile swamp di Tony Joe White.
Chi si aspettava un passo ulteriore in quella direzione rimarrà parzialmente
deluso dal nuovo Keep ‘Em on They Toes (qualcosa come: "tienili
sulla graticola, fai che si aspettino di tutto"), che da un certo
punto di vista torna indietro, facendo ammenda: seppure il talento di
Cobb non sia in discussione, l’atmosfera rilassata e la prevalenza di
ballad dal carattere intimo, attraversate da docili tonalità country rock
da portico, sulla distanza rende questo lavoro un po’ troppo mite e monocorde,
quasi che Dave abbia voluto rifugiarsi nella sua casa natale in Georgia
e pensare a se stesso, agli affetti più cari, isolandosi da un mondo incattivito.
I brani confermano queste impressioni; sono quadretti di famiglia (il
finale soprattutto, con Little Stuff), semplici pensieri d’amore
(Good Tikmes and Good Love), esami di coscienza, anche ironici,
sulla propria condizione di musicista (Shut Up and Sing), che si
alternano a riflessioni sulla società moderna, riassunte in qualche modo
dalla title track, Keep ‘Em on They Toes,
e dal motto contenuto nel titolo stesso.
I punti di riferimento di Brent Cobb questa volta sembrano essere John
Prine, soprattutto per il sound asciutto e minimale, il Waylon Jennings
più raccolto e maturo, ma anche certa canzone country ammansita tipica
di personaggi come Don Williams: fatta eccezione per la robusta armonica
che taglia in due Shut Up and Sing o il trotterellare della ruspante
Dust Under My Rug, ancora imparentata con JJ Cale, il lavoro del
nuovo produttore Brent Cook (di estrazione più affine al mondo indie rock)
è stato quello di accomodare la voce garbata di Cobb, spesso un sussurro
gentile, intorno a una strumentazione elettro-acustica arrangiata in punta
di dita, con piccoli interventi di violino, organo e seconde voci femminili
(brava Nikki Lane nel duetto spiritoso di Soapbox).
Da qui nascono canzoni come Sometimes I’m a Clown, la melodia naturale
di This Side of the River e la più
languida The World is Ending, più che mai attuale nelle sue considerazioni.
Si arriva in fondo al viaggio con la sensazione di essere accompagnati
per mano da un amico della porta accanto, ma anche con l’idea che Brent
poteva osare molto di più: ha scelto invece di nascondersi e mettersi
comodo, aspettando tempi migliori.