La country music gode di
ottima salute, e il Kentucky è la sua nuova casa natale. Temo se ne siano
accorti anche dalle parti di Nashville, accogliendo i figli di quella
terra a braccia aperte. L’ultimo in ordine di tempo è stato Ian
Noe, che ci ha colpito al cuore con il suo Between the Country,
ma nel frattempo un altro trentenne bussa alla porta e chiede di aggiungere
un posto a tavola: Tyler Childers. L’entusiasmo intorno alla sua
figura era cresciuto con Purgatory,
l’esordio a livello nazionale del 2017 prodotto con la collaborazione
del collega Sturgill Simpson e di David Ferguson (storico ingegnere del
suono per Johnny Cash). In quel disco Childers metteva a frutto un decennio
trascorso fra le radio e i locali di Lexington, dove aveva inciso il suo
primo album a soli diciannove anni. Emergeva un sapore aspro e sincero
di country rurale, di radici bluegrass e honky tonk elettrico, uno spirito
che aggiornava la stagione degli outlaw con vignette sociali dall’America
più profonda.
Country Squire conferma la squadra vincente e sotto la direzione
dell’amico Simpson raddoppia la posta in gioco: nove canzoni, tempi stringati
come si conviene a una raccolta country d’altri tempi, ma soprattutto
un suono che si è solo leggermente addomesticato, mollando per strada
qualche accento folk e privilegiando l’anima elettrica. Non a caso, pur
nella sua indipendenza, Childers si è portato a casa un contratto di distribuzione
con la RCA, che probabilmente gli farà guadagnare, glielo auguriamo, maggiori
attenzioni. Il frutto del “compromesso” è di grande qualità, e non perde
un briciolo della brillantezza esibita in passato, per dare ancora risalto
alla chiara voce rustica di Tyler, a quelle cadenze inconfondibili che
sanno di country rock agreste e ballate dal gusto terrigno. Gli arrangiamenti
sono vivaci, fiddle, banjo, mandolini e steel guitar garantiscono un alto
tasso di tradizione, mentre la stessa Country
Squire parte a razzo raccontandoci i sogni di un musicista
adottato dalla strada, che sogna la sua reggia, o forse meglio un angolo
di riposo.
In sessione sono coinvolti vecchie volpi e solidi strumentisti di area
bluegrass come Stuart Duncan (fiddle, mandolino) e Dave Roe (contrabbasso),
ai quali si aggiungono le chitarra in mille salse di Russ Pahl e gli svolazzi
da barrelhouse di piano e organo nelle mani di Mike Rojas e Bobby Wood.
La festa è garantita, i suoni nitidi, esemplari per fare emergere il racconto
e la voce di Tyler Childers, che affonda nel terreno country appalachiano
di Bus Route e danza sulla melodia
antica di Creeker. Le canzoni si susseguono senza soluzione di
continuità, dando l’impressione di una sorta di romanzo, anche se Country
Squire non insegue velleità da concept album, piuttosto una serie
di quadretti spesso autobiografici, molti scritti e pensati durante la
dura vita del musicista in tour. Il fuoco che li alimenta è evidente,
trascinando l’ascolto tra un honky tonk da manuale come Gemini
fino all’incalzare country banditesco di House
Fire, la quale si arrampica sulla vetta aumentando il passo
nel dialogo finale tra organo e violino.
Ever Lovin’ Hand poteva comparire soltanto in un album di un rinnegato:
siamo sicuri che a Nashville un galoppante honky tonk dedicato alle gioie
della masturbazione non l’avrebbero mai accettato... Peace of Mind
allenta un po’ la morsa e si accomoda sulle carezze di un altro walzer,
All Your’n è una piccola brezza gospel
country che ricorda Bob Dylan & the Band in uscita libera nel Tennessee,
mentre i dettagli da racconto di provincia di Matthew chiudono
con quel secco rintocco acustico che arriva dritto dal nativo Kentucky.
Nuovi tradizionalisti crescono.