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c'erano una volta i Dawes di
Fabio Cerbone (13/07/2018)
Ci
eravamo illusi che potessero diventare i migliori eredi dei Jayhawks, dobbiamo
accontentarci di una innocua band alle prese con aggraziate ballate pop. I Dawes
dei fratelli Goldsmith, Taylor al timone della scrittura oltre che chitarrista,
il più giovane Griffin dietro i tamburi, continuano a lambire le dolci acque della
West Coast di un tempo, quella scuola di melodie ariose e sofisticato songwriting
dalla natura intimista, ma ne ricavano il suono più levigato e compromesso di
fine stagione, quando la California dei sogni spezzati vedeva sopraggiungere il
crepuscolo degli anni settanta e le produzioni si facevano leziose, orientate
al gusto mainstream più banale.
Lo richiama in parte il lavoro di Jonathan
Wilson, qui regista che ci mette molta personalità e qualche ammennicolo dei
suoi per arrotondare le composizioni di Taylor Goldsmith, le quali infilano una
sequenza di ballate morbide e pianistiche nella forma, romantiche nell'espressività,
sulla distanza però noiose e senza una melodia davvero memorabile. Dopo lo sconquasso
del precedente We're
All Gonna Die, cambio di rotta confusionario nel quale il gruppo tentava
di riverniciare a nuovo il sound, abborracciando idee poco coerenti, Passwords
è in fondo un ritorno alle loro radici californiane, ma senza il guizzo elettrico,
le armonie e la classicità dei primi dischi, un crescendo fino a All
Your Favorite Band. Restano dunque scampoli rock poco convincenti nell'apertura
di Living in the Future, anche una sorta di
manifesto lirico dell'album, con i suoi riferimenti alla comunicazione moderna
e ai rapporti interpersonali nell'epoca dei social media. Troppo poco e male assortito
per tenere in piedi tutto il resto, dove Taylor Goldsmith svelerà ancora la sua
vena interiore e accorata e quel modo di riflettere su se stesso e la società
che lo circonda, ma perderà la bussola nel saper tradurre i suoi pensieri in ballate
degne di uno scatto.
Tutto suona soporifero e ricercato a cominciare da
Stay Down, con colpi di synth gonfiati e incursioni di languido pop psichedelico,
sul quale lo zampino artistico di Wilson è evidente, soprattutto in Feed the
Fire e My Greatest Invention. Crack The Case e I Can't Love
sono svenevoli nella loro coperta di archi sintetici, Telescope si tuffa
in una sorta di indie pop insipido che vorrebbe aggiornare gli anni ottanta, mentre
Mistakes We Should Have Made li saccheggia apertamente nella ritmica alla
War on Drugs, e in quel big drum sound tutto riverberi e poca sostanza. Per scovare
uno scampolo di bellezza più contenuta occorre aspettare il finale di Time
Flies Either Way, piano e sax a languire per sei minuti, comunque sempre
al limite di una affettata impostazione. Doppio passo falso per i Dawes, e forse
una promessa definitivamente archiviata.