Un
po' a sorpresa, schiacciati nel mezzo dell'invasione autunnale del mercato discografico,
i californiani Dawes si riaffacciano con un nuovo album a stretto giro
dal celebrato All
Your Favorite Bands. Un anno e poco più separa We're All Gonna
Die dal suo predecessore, un'eternità sembra però dividere i due gruppi
che li hanno concepiti, tanto è evidente il cambio di passo sonoro e la giravolta
negli arrangiamenti. Conservando a stento le qualità che li hanno imposti fra
i migliori prosecutori di una limpida tradizione roots rock, novelli discepoli
della west coast con un sound che pescava tra il mentore Jackson Browne, i Fleetwood
Mac di Rumors, il country pastorale della Band e le dolci armonie alt-country
dei Jayhawks, i Dawes di oggi sono una band in stato confusionale.
Ammiccano
ad un finto modernismo rock, con esiti imbarazzanti nel primo singolo When
The Tequila Runs Out e Quitter, provano a riverniciare le melodie
vocali, grazie alle quali si sono fatti strada, filtrandole con qualche effetto
d'accatto, e pasticciano volentieri tra groove e sound sintetici (il tocco "caraibico"
di Picture of a Man, uno scherzo e poco più),
perdendo di vista la loro arma migliore: la canzone. Non c'è quasi traccia di
quest'ultima nei dieci episodi di We're All Gonna Die, o meglio, tutto è sotterrato
da una sequenza di riff furbeschi, di innocenti trovate ritmiche, dove è davvero
difficile rinvenire le caratteristiche che hanno conquistato consensi in passato.
Cambiare e mettersi in gioco è una bella sfida, non vi è dubbio, ma non basta
un produttore illuminato (Blake Mills, a sua volta autore e chitarrista
che ama "sporcare" con intelligenza la tradizione) e una serie di collaboratori
di grido (Brittany Howard degli Alabama Shakes, Jim James e Will Oldham tra gli
altri) per risollevare le sorti di canzoni che hanno lo sguardo corto.
Fa
quasi tenerezza seguire i tentativi a vuoto con i quali i Dawes e Taylor Goldsmith,
autore principale che conserva quel tono un po' filosofico e descrittivo nei testi,
inseguono gli ultimi Black Keys su un terreno scivoloso di irritanti funk rock
danzerecci (l'apertura di One of Us), oppure cercano di reinventarsi come
improbabili e languidi promotori di uno sdolcinato e moderno r&b (il falsetto
della stessa We're All Gonna Die). Un disatro dunque? Poco ci manca, perché
occorre veramente scavare fra le rovine per trovare uno spunto degno di nota:
un ritorno di fiamma californiana in For No Good Reason,
ma senza particolari clamori, e uno strano finale (As If By Design) che
si balocca con un piano bluesy da vecchia New Orleans e trombe mariachi.
Nel
titolo, minaccioso eppure ironico, Taylor Goldsmith e compagni dicono di avere
riassunto il tono generale di questi brani: trovare il buono dentro situazioni
all'apparenza difficili e disastrose, senza una via di uscita. Magari mancheremo
di ironia per leggerle in controluce, ma qui pare che la situazione sia sfuggita
di mano. Una delle delusioni più cocenti di questo 2016.