Thrum:
un rumore sordo, basso e continuo, il pizzicare pigro e ritmico di una chitarra,
in maniera quasi monotona. Joe Henry sceglie canzoni e titoli non a caso,
tanto è l'amore che prova per le sue composizioni, messaggi da abbandonare al
mondo, creazioni che gli spezzeranno il cuore, dice lui, ma che devono camminare
con le proprie gambe, offrendo solo uno scorcio, una luce che illumina un istante.
D'altronde sarebbe assai complicato imbrigliare il songwriting di Henry, quanto
mai denso di allusioni e metafore, poetico nel senso più proprio del termine,
senza dubbio fra i migliori in circolazione nel panorama della canzone d'autore
americana.
I testi di Thrum - il nuovo album a tre anni di distanza da
Invisible Hour
e dopo avere archiviato l'elegiaca ode al folklore dei treni di Shine
a Light insieme al collega Billy Bragg - rappresentano il mistero più
intrigante da sciogliere: una cura affettuosa di ogni singola parola, mai un fiato
sprecato, cesellata su sentimenti che ognuno poi elaborerà a modo proprio, come
la poesia deve fare. La musica invece è una prosecuzione testarda e perfettamente
calibrata di quel processo iniziato con Reverie e arrivato al culmine nel citato
Invisible Hour, tanto che Thrum pare rappresentarne un secondo atto. Inciso in
due session con il fidato ingegnere del suono Ryan Freeland, quattro giorni in
tutto tra febbraio e marzo di quest'anno a Los Angeles, l'album offre quel suono
jazzato e avvolgente, in presa diretta con la band raccolta in studio, che è diventato
un marchio di fabbrica per Joe Henry, sia come autore sia come affermato produttore.
È un limite da un certo punto di vista, e una caratteristica altrettanto
riconoscibile: l'eleganza di Climb, i tremori
ritmici di Believer, il fluttuare di Dark
is Light Enough, il prolungato walzer di Blood of
the Forgotten Song parlano un linguaggio familiare, nobile, con il
figlio Levon Henry a punteggiare le melodie scarne del padre, spesso di
derivazione folk blues, con i soffi dei suoi sax e clarinetti, con il piano e
l'organo di Patrick Warren ad infondere una romantica atmosfera e la stabile sezione
ritmica di Jay Bellerose e David Piltch a scartare qualche volta di lato, seguendo
al tempo stesso l'istinto e la disciplina. Gli obiettivi sono chiari e in fondo
il mood del disco è ancora figlio delle intuizioni di Shuffletown, uno dei vertici
delle prima parte della carriera di Henry: su quella linea, che muove dalla tradizione
del più semplice dei folksinger e arriva al sofisticato talento di un songwriter
che sembra attingere tanto da Randy Newman quanto dal giovane Tom Waits, il nostro
protagonista si abbandona alle gentilezze di un quartetto d'archi in Hungry,
al soffuso passo acustico di Quicksilver, agli svolazzi dei fiati e del
chamberlin in Now and Never.
L'impressione, dopo tutta questa raffinata
tela di sonorità, è che la formula cominci a stancare: non perché Thrum sia un
disco irrisolto - anzi, è fin troppo chiara la sua visione - semmai perché da
Joe Henry ci aspetteremmo sempre qualche rischio in più, quelli che si è sempre
preso in passato, quando deviò improvvisamente dal fok rock e dal country delle
origini per passare attraverso l'elettronica, il jazz di Ornette Coleman, il pop
più ombroso fino a tornare sui passi della tradizione. Adesso che conosciamo a
menadito il percorso che ha portato fino a Thrum, la prossima volta vorremmo essere
spiazzati da un artista con il peso della sua storia.