File Under:
Joe Henry's astral week di
Fabio Cerbone (05/06/2014)
Lungo
viaggio attraverso le parole e l'anima di Joe Henry, Invisible Hour
è quello che si potrebbe facilmente definire il personale stream of consciusness
del folksinger americano, insomma quel famigerato "flusso di coscienza" che dal
padre James Joyce a Van Morrison si è spesso trasposto anche nella musica popolare,
con risultati "astrali". L'idea non è forzata, a patto certo di distinguere linguaggi
e stili, che nel caso di Henry significano una forma di ballata elegante e scarna
al tempo stesso, una perfezione quasi formale raggiunta dal suo modo di cantare,
mai troppo lodato eppure riconoscibilissimo, e di raccontare i versi, tra schegge
acustiche e delicate decorazioni degli strumenti a fiato. Divenuto un po' esteta
di se stesso, questo va detto, l'artista di Pasadena - dove per quattro giorni
alla fine di luglio del 2013 è stato inciso il nuovo ciclo di brani - rivendica
la particolarità di Invisible Hour, un album assai intimo che per la prima volta,
così dice lui, apre a nuove possibilità invece di cristallizzare un momento preciso
della sua condizione di artista.
Dovremmo credergli sulla fiducia, così
come quando cerca di esplicitare alcuni testi, facendo riferimento alla sua vita
matrimoniale. Scendendo un po' più a terra e penetrando nel cuore di queste ballate,
Invisible Hour rappresenta in fondo la summa del Joe Henry in chiave folk
d'autore, quello che partito dalla bellezza agrodolce di Shuffletown e passato
per la maturità di Civilians
(ancora oggi il parto migliore sul versante più tradizionale della sua scrittura)
è approdato al bianco e nero del precedente Reverie.
Il tracciato è simile, l'ora di musica molto imparentata e certamente lontana
dalle sperimentazioni più ardite - e anche dai vertici assoluti - di Tiny Voices
o Scar: qui ci sono le ossature acustiche di Greg Leisz e John Smith, tra chitarre,
mandola e weissenborn, il felpato tocco jazzy della ritmica, c'è il soffiare leggiadro
del figlio Levon al clarinetto e sax, ci sono le voci degli ospiti Milk Carton
Kids e Lisa Hannigan (spalla a spalla in Lead
me On), più in generale c'è una musicalità affettata, sempre contenuta
nella misura e sicura nel portamento.
E se la classe infinita dell'autore
(le parole in Invisible Hour sono profonde e importanti, dallo spessore letterario
sempre misterioso e ricco di metafore e confessioni…non a caso vi partecipa anche
il romanziere Colum McCann) lo rende uno dei pochi "classici" attuali
della canzone d'autore americana capaci di viaggiare al fianco con i suoi maestri
(da Tom Waits a Bob Dylan, con un pizzico di Morrison, come già anticipato), è
anche vero che dal trittico esemplare di Sparrow,
Grave Angels e Sign (una sorta di saga
familiare magnificamente malinconica, quasi nove minuti fluenti) posto in apertura,
il disco non esce mai più dal seminato. Dettaglio essenziale per capirne il tenore
molto, forse troppo uniforme e prepararsi ad accoglierlo con pazienza e animo
affettuoso: servono entrambi per seguire le morbide curve di Swayed,
i colori gospel di Plainspeak, le cadenze
più roots di Every Sorrow e persino una Alice
che, sarà complice il titolo, ricorda proprio il Tom Waits più amabile e acustico
di inizio carriera.
Artisticamente non è forse il suo lavoro più
rappresentativo, ma nalla fotografia d'insieme è un disco di grande levatura
e ambizione, che pochi avrebbero il coraggio di proporre al loro pubblico