C'è
una evidente differenza tra il Ryan Adams degli anni zero e quello degli
anni dieci. Laddove un decennio fa assistevamo alle eccitanti e continue prove
di forza di un artista impegnato a voler dimostrare di poter essere buono per
tutti i palati, oggi Prisoner arriva a confermarci che Adams ha
deciso di calmarsi, anche se fortunatamente ancora non di fermarsi. Per cui, se
prima in mezzo a dischi indiscutibilmente importanti, Adams ci aveva abituato
ad uscite risolte in deliziosi esercizi di stile quando andava bene (Jacksonville
City Nights), o semplicemente malriuscite deviazioni dal tema quando andava male
(Rock And Roll), a partire da Ashes
and Fire del 2011 il suo stile si è stabilizzato su quella malinconica
canzone a cavallo tra country e indie-folk che aveva trovato in Love Is Hell e
Cold Roses la sua realizzazione più convincente.
Persino quando fa gli
scherzi ora Adams appare addomesticato e riappacificato, se è vero che anche il
precedente 1989
partiva sì da un'idea provocatoria (rifare completamente in chiave rootsy un album
pop di Taylor Swift), ma si risolveva in un risultato decisamente poco avventuroso
e in tutto per tutto simile alla sua produzione autografa. Chi lo segue ci guadagna
una certa nuova e insperata garanzia di qualità, e non si rischiano più fregature
tipo Orion del 2010, ma per contro in Prisoner si comincia a respirare
leggera quella pericolosa aria di "minestra riscaldata" ad essere negativi,
o di semplice misurato professionismo a riconoscergli comunque il merito di saperci
sempre fare un po' più di tutti i suoi colleghi. Che la coperta cominci ad essere
corta lo si capisce anche dal fatto che Adams si affretta a sparare subito le
cartucce buone, iniziando quello che è a tutti gli effetti uno breakup-record
alla Blood On The Tracks dedicato al suo recente divorzio, con il giusto fervore
di Do You Still Love Me e con l'eccelsa scrittura
della sofferta title-track.
Ma il resto del disco si risolve in una serie
di gradevoli dèjà vù, e anche certi arrangiamenti tutto sommato grezzi (Outbound
Train) o giocati su riff immediati come Anything
I Say To You Know o giri roots risaputi come To be With You,
cominciano a dare l'idea che anche in studio l'uomo si accontenti molto di più
delle prime versioni partorite. Spero di essere smentito in futuro e di poter
un giorno parlare di un Adams degli anni 20 come di una nuova elettrizzante avventura
musicale, ma Prisoner sembra davvero il terzo capitolo di un unico album che unisce
Ashes and Fire e il disco
omonimo del 2014, e probabilmente finirà per rappresentarne l'anello
debole. Intendiamoci: non c'è nulla che non vada qui, se non la sensazione che
cominci ad approfittarsi anche lui della facilità con cui può offrirci brani che
trasudano sofferenza come Breakdown o la struggente We
Disappear senza scivolare troppo nel melodrammatico.
E' ancora
presto per bocciare un suo disco - quando è comunque ispirato, sentito, e pieno
di brani di interessanti come questo Prisoner - ma il suo essere sopra
la media sta pericolosamente iniziando ad essere sempre meno evidente.