Ryan Adams
Prisoner
[PaxAm/ Blue Note
2017]

www.paxamrecords.com

File Under: blood on the tracks

di Nicola Gervasini (17/02/2017)

C'è una evidente differenza tra il Ryan Adams degli anni zero e quello degli anni dieci. Laddove un decennio fa assistevamo alle eccitanti e continue prove di forza di un artista impegnato a voler dimostrare di poter essere buono per tutti i palati, oggi Prisoner arriva a confermarci che Adams ha deciso di calmarsi, anche se fortunatamente ancora non di fermarsi. Per cui, se prima in mezzo a dischi indiscutibilmente importanti, Adams ci aveva abituato ad uscite risolte in deliziosi esercizi di stile quando andava bene (Jacksonville City Nights), o semplicemente malriuscite deviazioni dal tema quando andava male (Rock And Roll), a partire da Ashes and Fire del 2011 il suo stile si è stabilizzato su quella malinconica canzone a cavallo tra country e indie-folk che aveva trovato in Love Is Hell e Cold Roses la sua realizzazione più convincente.

Persino quando fa gli scherzi ora Adams appare addomesticato e riappacificato, se è vero che anche il precedente 1989 partiva sì da un'idea provocatoria (rifare completamente in chiave rootsy un album pop di Taylor Swift), ma si risolveva in un risultato decisamente poco avventuroso e in tutto per tutto simile alla sua produzione autografa. Chi lo segue ci guadagna una certa nuova e insperata garanzia di qualità, e non si rischiano più fregature tipo Orion del 2010, ma per contro in Prisoner si comincia a respirare leggera quella pericolosa aria di "minestra riscaldata" ad essere negativi, o di semplice misurato professionismo a riconoscergli comunque il merito di saperci sempre fare un po' più di tutti i suoi colleghi. Che la coperta cominci ad essere corta lo si capisce anche dal fatto che Adams si affretta a sparare subito le cartucce buone, iniziando quello che è a tutti gli effetti uno breakup-record alla Blood On The Tracks dedicato al suo recente divorzio, con il giusto fervore di Do You Still Love Me e con l'eccelsa scrittura della sofferta title-track.

Ma il resto del disco si risolve in una serie di gradevoli dèjà vù, e anche certi arrangiamenti tutto sommato grezzi (Outbound Train) o giocati su riff immediati come Anything I Say To You Know o giri roots risaputi come To be With You, cominciano a dare l'idea che anche in studio l'uomo si accontenti molto di più delle prime versioni partorite. Spero di essere smentito in futuro e di poter un giorno parlare di un Adams degli anni 20 come di una nuova elettrizzante avventura musicale, ma Prisoner sembra davvero il terzo capitolo di un unico album che unisce Ashes and Fire e il disco omonimo del 2014, e probabilmente finirà per rappresentarne l'anello debole. Intendiamoci: non c'è nulla che non vada qui, se non la sensazione che cominci ad approfittarsi anche lui della facilità con cui può offrirci brani che trasudano sofferenza come Breakdown o la struggente We Disappear senza scivolare troppo nel melodrammatico.

E' ancora presto per bocciare un suo disco - quando è comunque ispirato, sentito, e pieno di brani di interessanti come questo Prisoner - ma il suo essere sopra la media sta pericolosamente iniziando ad essere sempre meno evidente.


    


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