| | | | | The
Decemberists
What a Terrible
World, What a Beautiful World
[Rough
Trade/ Self
2015] www.decemberists.com
File Under:
The wonderful folk world of The Decemberists
di
Fabio Cerbone (22/01/2015)
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I quattro anni che separano What a Terrible World, What a Beautiful World
dal suo predecessore sono stati al tempo stesso un trionfo e una messa in discussione
dell'esistenza dei Decemberists. Il successo di The
King is Dead ha trascinato la band di Portland dentro il mainstream
musicale e nelle spirali del cultura pop (si pensi alle partecipazione nella serie
"Parks and Recreation" o addirittura alla presenza in forma di cartoon
nei Simpsons, sorta di benedizione), premiando un lungo percorso artistico, che
ha sempre rivendicato le qualità letterarie, favolistiche, spesso ambiziose, nella
scrittura del leader Colin Meloy. L'album più diretto e classico della loro collezione
rappresentava così anche la sfida più difficile da superare, tanto è vero che
un doppio celebratorio live - We
All Raise Our Voices to the Air - sembrava chiudere un'epoca, suggerendo
diverse incognite sui passi successivi.
Entrati in studio per la prima
volta senza una precisa direzione o un forte concept alla base della loro creatività,
The Decemberists hanno fatto quello che ci si aspetta da una formazione all'apice
della sua maturità: trovare una sintesi di tutto quanto conquistato in precedenza,
badando più alle canzoni che al contesto, con un pizzico di mestiere che non guasta
in queste occasioni. Si sono anche presi la briga di riflettere sulla loro stessa
esperienza, come altrimenti non poteva essere per musicisti sensibili, nati nell'alveo
dell'indie rock. Ecco spiegata la riflessione iniziale di The
Singer Addresses His Audience, in cui Meloy e soci non nascondono la
condizione di artisti di successo. In genere dischi di questo tenore, dove l'autore
di turno affronta le sue paure rispetto alla fama, tendono ad essere pericolosamente
auto-referenziali: non accade in What a Terrible World, What a Beautiful World,
opera dalle diverse sfaccettaure, anche di umore musicale, che dalla ideale sfrontatezza
pop della prima parte scivola gradualmente verso l'intensità folk che sta alla
radice del sound dei Decemberists, per riprendere poi il discorso sulle radici
e quel tocco di Americana che ha fatto la fortuna del citato The King is Dead.
Per cui agli archi e alla melodia ammiccante di Calvary
Captain, alla solare esplosione pop in odore di Beach Boys di Philomena
si accavvallano gli amati Rem in brillante cadenza folk rock di Make
You Better e The Wrong Year, la dolce malinconia british di
Lake Song, prima di avventurarsi nella densa coltre roots di Carolina
Low (sorta di rielaborazione dell'antica melodia appartenuta al traditional
Wayfaring Stranger) e Better Not Wake the Baby, breve ballata picaresca
per chitarre, banjo e accordion. Anche le tematiche sono più erranti, passando
in rassegna cenni biografici (il dolciastro, mesto walzer di Till
the Water Is All Long Gone), momenti narrativi e di stretta cronaca
(accade nel limpido folk per armonica e acustiche di 12-17-12,
ispirato dalla ripetute stragi per armi da fuoco in America), confermando la sensazione
di un disco dove i Decemberists non si sono imposti limiti o sceneggiature pre-costituite,
magari sfruttando le recenti conquiste (la perfezione roots di una Anti-Summersong,
che arriva dritta dal mood di The King is Dead, una ruffiana Easy Come, Easy
Go, compresa l'irresistibile chitarrina surf) e più in generale un equilibrio
che a qualcuno potrà anche apparire meno sincero (ma alla trasparente cadenza
folk rock di Mistral non si resiste, fidatevi).
Il fatto poi che abbassino il sipario con una canzone come A Beginning Song,
quintessenza di tutti i pregi e i (buoni) difetti del loro stile, a volte ridondante,
indica che il cerchio si chiude e si può ricominciare da capo: l'effetto sarà
crescente ad ogni nuovo passaggio.
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