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folk rock, americana di
Fabio Cerbone (04/04/2012)
The
Decemberists sono stati un piccolo casus belli nel 2011 grazie all'esplosione
del loro The King is Dead, disco da top ten che ha proiettato definitivamente
nell'universso mainstream la formazione di Colin Meloy. In questi casi sappiamo
bene come false accuse di tradimento e strascichi di presunte innocenze perdute
si accompagnino spesso alla storia di quelle rock'n'roll band che fanno il salto
di qualità (…e di quantità). Dopo dieci anni di "purgatorio" indipendente e di
continui attestati di stima non si può proprio fargliene un torto. Il loro successo
insomma non ha rubato la scena a nessuno: tutto meritato, anche se questo ha comportato
un cambio di stile per il gruppo, un suono a tratti più convenzionalmente rock
o meglio ancora Americana (c'era anche Gillian Welch a collaborare e benedire),
che da queste parti a maggior ragione non può essere sottaciuto. Il primo posto
nella classifica di Billboard, i singoli This Is Why We Fight e Calamity Song,
l'esibizione ai Grammy Awards e le nomination come 'Best Rock Song' e 'Best Rock
Performance' non sono sicuramente dettagli insignificanti, ma a ben vedere quello
che ha sempre distinto una realtà viva da un autentico bluff è proprio l'esame
del palco. La vicenda dei Decemberuists allora assomiglia un po' - non per suoni,
stile o storia personale, semmai per tappe e maturazione - a quella dei Wilco,
che costruendo disco dopo disco un loro culto personale, sono passati dall'oscurità
provinciale dell'alternative country alla presenza centrale nel rock'n'roll circus
di oggi.
Non a caso dunque, come a suo tempo fu per la band di Jeff tweedy
il doppio monumentale live Kicking Television, cemento per la loro crescita in
pubblico (e per lo stesso repertorio, soggiogato ai cambi di rotta dei singoli
musicisti), così oggi We All Raise Our Voices To The Air raccoglie
in due ore e altrettanti dischi la vivida testimonianza della turbolenta popolarità
per Meloy e soci, da presenza del "piccolo mondo" indie di Portland
a stelle del nuovo firmamento rock americano. I venti brani provengono da quattro
mesi di tour che hanno fatto seguito all'affermazione del citato The King is Dead.
Primavera ed estate del 2011 in dodici differenti serate, tra cui vale la pena
citare alcuni templi dello show business americano: dallo storico Ryman Auditorium
di Nashville allo Stubb's BBQ di Austin (dove immaginiamo che il nuovo corso roots
della band sia stato particolarmente apprezzato…), dal Beacon Theatre di New York
al più casaligno McMenamins Edgefield Amphitheatre della stessa Portland (un luogo
su cui prima o poi bisognerà girare un documentario, se qualcuno non ci ha già
pensato, perché oggi sembra essere la città più viva d'America in fatto di cultura
e musica). L'effetto di questo patchwork - il quale non manca di rileggere ciascuna
singola tappa discografica dei Decemberists - è esattamente quello di una celebrazione,
compresa la calda partecipazione del pubblico, gli immancabili cori (a tratti
anche abbondanti e inutili), le frivole introduzioni e i siparietti di Colin
Meloy (che trova fondamentale avvisare gli astanti sul fatto che non si trovino
ad un concerto di Keith Urban…).
Fosse tutto qui, We All Raise Our Voices
To The Air potrebbe anche passare sotto traccia, un semplice tributo alla propria
storia, ma la rivisitazione del repertorio seguendo le curve del rinnovato stile
ricopre un ruolo centrale in questo doppio album. Che The King is Dead faccia
la parte del leone nella scaletta è quasi comprensibile (la festa prevede, tra
le altre, belle versioni di Down by the Water,
All Arise! tutta frizzi country e la sferzata folk tradizionale di Rox
in the Box, con il fiddle di Sara Watkins), ma è altrettanto innegabile
che la veste pensata per gli episodi provenienti da The Crane Wife, Picaresque
(The Bagman's Gambit e l'apertura con The
Infanta tra i momenti più intensi) o Her Majesty (la vaporosa Billy
Liar, i saluti finali con l'eslosione rumoristica dei fiati in
I Was Meant for the Stage) ci offra un'indicazione precisa sullo stato
attuale dei Decemberists: magari più robusti nel proporre il loro scanzonato folk
rock, esteticamente meno disposti a certe leggerezze pop, lontani soprattutto
dalle fregole progressive di The Hazard of Love (non a caso poco frequentato nel
live in questione), ancora capaci però di dilatare ad oltre dieci minuti la stessa
The Crane Wife ("suite" divisa in
tre parti) o la marcetta picaresca di The Mariner's Revenge
Song. In tutta questa generosità (e anche in certo giustificabile trionfalismo)
We All Raise Our Voices To The Air non è probabilmente un disco perfetto, eppure
nel suo abbandono, nella potenza anche chiassosa, nella trascinante energia e
comunicativa che lo distingue è la migliore affermazione di se stessi a cui i
Decemberists potessero aspirare. Non si chiede forse questo ad un live album?