Non so di quali consiglieri si avvalga Colin Meloy per le sue scelte
artistiche, ma l'impressione è che o non ne ha proprio, o ne ha di pessimi, a
meno che lui non sia davvero così geniale da aver pensato a The King Is
Dead con l'unico fine di farci digerire meglio il precedente The
Hazards Of Love. Facciamo un passo indietro e andiamo al 2006, anno
in cui i Decemberists, una delle più geniali ed elettrizzanti epopee indie-folk
degli anni 2000, realizzano la loro summa con The
Crane Wife, un album difficile, che apriva nuove strade addirittura
prossime al progressive inglese, come se la magniloquenza dei Jethro Tull o dei
Genesis potesse rivivere anche nel mondo indipendente moderno. E infatti nel 2009
arriva l'immancabile concept-album, una tentazione che non si nega a nessuno prima
o poi, ma che ha dato luce a quel loro lavoro così controverso. Eppure in mezzo
a tante critiche, la convinzione generale era che la strada intrapresa fosse comunque
quella giusta. Invece Meloy si deve essere spaventato, ha dichiarato che le esecuzioni
live del disco gli erano venute a noia, e così ha realizzato la marcia indietro
che nessuno auspicava, soprattutto perché qui non si ritorna perlomeno al fantasioso
guazzabuglio di storie e folk-songs sentito in piccole opere perfette come Picaresque
o Her Majesty, ma ad una piatta (per quanto piacevolissima) normalità che proprio
non appartiene alla band.
Le dieci canzoni di The King Is Dead nascono
dalla frenesia di essere più facili, diretti e comprensibili, oltre che da una
voglia di pop-rock inglese anni 80, evidenziato fin dall'omaggio agli Smiths nascosto
nel titolo. Per ottenere il risultato Meloy e soci adottano un irish-folk con
vaghi inserti roots americani che dovrebbe essere ciò che più ci è caro da queste
parti, se non fosse che non è da loro che ci aspettiamo queste canzoni. Non c'è
niente di male nell'abusare di armoniche younghiane (Don't
Carry At All), e neppure nel chiamare in aiuto il sovra-utilizzato
Peter Buck dei REM, se non fosse che qui il bravo chitarrista porta in
dote nuove una serie di accordi riciclati che fanno sì che Calamity
Song sembri una outtake di Reckoning, e soprattutto il singolo Down
By The Water (per il quale viene scomodata Gillian Welch) sia
una fotocopia di un brano di Out Of Time. Citazioni/omaggi più che accettabili,
se non stessimo parlando di una band che ha sempre dimostrato una personalità
forte che qui sembra essere del tutto scomparsa.
Magari (e speriamo che
sia così per certi versi) qualche giovane ascoltatore troverà originale il bel
medley di Rox In The Box, che si conclude
con un traditional che abbiamo in mente in versioni ben più storiche (ricordate
la Raggle Taggle Gypsy dei Waterboys ad esempio?), oppure coglierà l'occhiolino
fatto alla country-music in All Arise! o il
Dylan sparso negli accordi di June Hymn. Troppi
riferimenti evidenti per un autore che dovrebbe essere lui stesso uno da copiare,
e non più un imitatore. Tornino pure a complicarci la vita e a sbagliare i dischi
per troppo coraggio e non per puro timore, che a navigare nell'ovvio ci stanno
pensando già troppi loro seguaci. (Nicola Gervasini)