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rock in the USA di
Fabio Cerbone (01/04/2014)
The
Hold Steady erano una band al bivio: ripetuti segnali mettevano in allarme
il quintetto capitanato da Craig Finn, buon ultimo il suo tentativo solista
(forse riuscito più nella parte della scrittura) con Clear
Heart Full Eyes, che seguiva peraltro di due anni lo sfilacciato Heaven
Is Whenever, l'album meno irruente della loro produzione, anche a causa
dell'abbandono definitivo di Franz Nicolay, da sempre elemento chiave con il suo
pianoforte. Passaggi che nell'insieme mettevano l'espressione "pausa indefinita"
al centro della loro storia. Ci sono voluti infatti quattro anni per ritornare
a credere in questa avventura: Teeth Dreams è in un certo senso
la risposta più ovvia che ci si aspetterebbe da loro, perché cerca di rigenerarsi
tornando al passato, alle chitarre spianate e dritte in faccia, alla bolgia del
rock'n'roll più melodrammatico che appartiene di diritto alla band, persino con
una carica espressiva inedita, dovuta all'innesto in pianta stabile di una seconda
chitarra, quella di Steve Selvidge (ex Lucero).
Il suo interplay costante
con il membro storico Tad Kubler è la chiave di lettura del nuovo lavoro, da una
parte più istintivo e concentrato sulla ricerca del riff chitarristico (Runner's
High, Big Cig, Wait a While
sono un bel campionario di rock grasso e tonante), dall'altra però immerso
in un suono abbondante, iper-prodotto, pieno zeppo di eco, che rende la matrice
classic rock del gruppo più limpida che mai (un ascendente che rotola tra Bob
Mould, Bruce Springsteen e i Thin Lizzy, se mi concedete lo strano connubio) e
nello stesso tempo toglie un po' di quella grezza attitudine da bar band che ancora
gli restava appiccicata addosso. Non sono sicuro che Nick Raskulinecz sia il regista
più adatto per le canzoni di Craig Finn: il produttore in questione ha lavorato
con Alice in Chains, Deftones, persino con i Rush, una scuola di pensiero che
cozza non poco con i fremiti dai margini americani e l'immagine stessa di Finn
(il più improbabile dei frontman, da un certo punto di vista, eppure uno dei più
sorprendenti per la dicotomia tra voce e presenza scenica).
L'idea di
suono che sta dietro Teeth Dreams potrà quindi spiazzare, ma possiede anche la
capacità di rendere le canzoni degli Hold Steady mai così apertamente "pop", senza
per questo cedere un millimetro dalla loro elettricità trascinante: I
Hope This Whole Thing Didn't Frighten You e il primo singolo estratto
Spinners spiegano più di tante parole, doppietta
in apertura che li ricollega alla parabola dei loro beniamini Husker Du quando
approdarono alla maturità degli ultimi anni per la Warner, fino a giungere
alle spirali folk rock di The Only Thing.
The Ambassador chiude in qualche modo il cerchio, stemperando l'animosità:
ballata che rimette al centro le storie, i volti americani e i ricordi giovanili
di cui Craig Finn è riconosciuto maestro, servendosi del gioco di piano e chitarre
e dei loro riverberi. Tirate le somme un ritorno di forma e insieme una rotta
familiare, che riesce tuttavia a rendere il famigerato talkin' di Finn meno marcato
e monotono del previsto, a fornirgli una chiave più melodica per l'appunto, svelata
nell'altra ballata in scaletta (Almost Everything) e nel lungo, lancinante
finale di Oaks, quasi nove minuti di crescendo
elettrico che indicano un gruppo con capacità persino inespresse e ancora possibili
cambiamenti, dentro una formula come la loro, in apparenza così monolitica.
La
tenuta della memoria del rock americano, sempre più marginale purtroppo,
passa ancora da queste parti.