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: songwriter, roots-rock di
Nicola Gervasini (01/02/2012)
Non
abbiamo mai avuto dubbi nell'indicare Craig Finn come una delle più importanti
personalità del nuovo rock americano degli anni duemila, semmai qualche perplessità
nel considerare i suoi Hold Steady una garanzia, visti i recenti sviluppi stilistici.
La sua band ha praticamente scritto due manifesti di una rinascita di un certo
suono, nato in bilico tra rock and roll e blue-collar music (Separation Sunday
e Boys
and Girls Of America), riuscendo ad unire testi intelligenti e
letterari e un atteggiamento per nulla spavaldo, in grado di far digerire soluzioni
da arena-rock anche al più puzzecchioso mondo della musica alternativa. Se già
Stay
Positive nel 2008 evidenziava che la penna di Finn stava
cominciando ad essere migliore del suono prodotto dalla band, la contraddizione
è divenuta evidente nel successivo Heaven
Is Whenever, in cui gli arrangiamenti cominciavano a rasentare
la pura banalità, mentre il songwriting si faceva sempre più convincente e volto
ad essere anche "scrittore", oltre che frontman.
Logica conseguenza dunque
la fuga solista del leader, e ancora più ovvio l'ottimo risultato: libero dall'obbligo
di rispettare il suono di un ensamble affiatato, Finn si affida a vari session-men
occasionali della scena roots di Austin e si ritrova libero di adottare un suono
più elaborato e personale. Merito anche del produttore Mike McCarthy (Spoon,
ma anche Patty Griffin), abile intessitore di trame elettro-acustiche infarcite
di chitarre acide e suoni metropolitani. Clear Heart Full Eyes segue
dunque la via giusta verso un nuovo roots-rock degli anni dieci, dove gli elementi
in gioco sono vecchi, ma la loro fusione risulta sempre fresca. E ha la fortuna
dei grandi incipit, grazie ai cinque minuti abbondanti di Apollo
Bay, tra riverberi, feedback e la sua voce narrante a creare
una tensione da applausi. Finn con l'età sta sempre più sfruttando la teatralità
della sua voce, puntando sempre più spesso su modalità parlate. In When
No One's Watching ad esempio narra la storia di una separazione di
coppia con il piglio di chi si ritrova al bar a raccontarla ad estranei, con un
effetto che può ricordare molto il Lou Reed della maturità. In ogni caso il disco
non rinuncia al rock, con una No Future che
sembra una versione mainstream di un brano degli Husker Du, mentre New
Friend Jesus riserva nuove venature country-rock. Jackson
invece si butta su un riuscito dialogo tra una rozza chitarra elettrica e tastiere
e synth vari, creando il giusto background ad una tragica storia di tre amici
in fuga.
La varietà è dunque il primo pregio del disco, capace di passare
dalle trame acustiche di Terrified Eyes all'incedere
tetro di Western Pier, dal rock-blues del singolo Honolulu
Blues e di Rented Room alla bellissima classic-ballad Balcony.
Chiusura con le note sofferte di Not Much Left Of Us,
a dimostrazione di come la sua sgraziata vocalità sappia seguire una melodia emozionando
come i grandi vocalist. Non è ancora chiaro se questo esordio sia l'inizio di
una nuova carriera o solo una doverosa pausa di riflessione nella storia degli
Hold Steady, ma è sicuro che Finn è stato capace di firmare il suo disco della
raggiunta maturità al primo colpo e in piena solitudine, e, quasi quasi, se continuasse
così...