The
Hold Steady
Heaven Is Whenever
[Vagrant/Rough
Trade 2010]
Citare, nella stessa strofa, due canzoni immortali come Make No Sense
At All e The Girl Who Lives On Heaven Hill, nonché i loro artefici,
gli indimenticabili Hüsker Dü di Bob Mould e Grant Hart, è un colpo basso. Ma
fa anche parte di quel gioco di rimandi e riferimenti cui la scrittura di Craig
Finn, deus ex-machina dei devastanti Hold Steady da Brooklyn, New York,
assieme alla Gibson rocciosa del chitarrista Tad Kubler, ci ha abituati da tempo.
Disco dopo disco facendoci più o meno innamorare, coinvolgere, palpitare. Corrono
talmente veloci le informazioni, di questi tempi, che nemmeno sapevo il gruppo
avesse perso per strada il tastierista Franz Nicolay, intenzionato a perseguire
una sua carriera solista. E quello che manca a Heaven Is Whenever,
per suonare grandioso e decisivo quanto i quattro splendidi dischi che l'hanno
preceduto, sono proprio le scale drammatiche e stradaiole del baffuto pianista,
che andandosene via ha portato con sé quel tocco di lirismo in chiave E-Street
Band che li marchiava in maniera inconfondibile.
Gli altri elementi
della magia sono rimasti al loro posto. Funziona l'immaginario desolato dei testi
di Finn, ancora una volta incentrati su ragazzi in fuga da un abisso interiore
combattuto a colpi di droghe e amplessi squallidi e fugaci e ancora una volta
capaci di aprirsi a parentesi di tenerezza tanto grande quanto inaspettata (ascoltate
il narratore di Hurricane J dire alla solitaria
impiegata ventiduenne di un ristorante "Sei una ragazza bellissima e una brava
cameriera / Ma Jesse, non penso di essere la persona giusta", o il refrain di
Soft In The Center recitare "Non puoi avere
ogni ragazza / Avrai quelle che amerai di più / Puoi ancora fare qualsiasi cosa
/ Puoi uscire e stare bene", e ditemi se non vi si spezza il cuore). Funziona
la potenza scombussolante dei riff più immediati di Kubler, elevati al cubo in
episodi di pura abrasione rock'n'roll che rispondono al nome di Rock
Problems, The Weekenders, Hurricane
J, Our Whole Lives. Funziona il volume
spaccatimpani di un gesto rock ormai desueto, e perciò tanto più prezioso, metropolitano
fino al midollo, sul quale vegliano i santini di Bruce Springsteen, Jim Carroll,
Grant Hart e Meat Loaf. E funzionano anche i frequenti diversivi, dall'assolo
di clarinetto che balza in primo piano durante Barely
Breathing ai synth che racchiudono i cori da stadio della bellissima
A Slight Discomfort (sette minuti di riverbero,
batteria tonante e decostruzione del suono rockista in grado di raggiungere le
vette ineguagliabili dell'epos che fu), dalla morbida slide che serpeggia lungo
lo shuffle oppiaceo di The Sweet Part Of The City
all'inusitata delicatezza folk-rock di We Can Get Together.
Si tratta però di un "funzionamento", di un'efficacia che riguarda i
singoli episodi esaminati da una prospettiva isolata, poiché nel contesto di Heaven
Is Whenever la loro interazione finisce per sembrare un po' disarticolata, disomogenea,
o perlomeno non compatta e dirompente com'era stato in passato. Detto questo,
si può continuare a impazzire per gli Hold Steady (io continuo a farlo): un dignitosissimo
disco di transizione si perdona a chiunque e non toglie nulla al memorabile cursus
honorum di una band tra le pochissime, negli ultimi anni, a riportare di prepotenza
il rock'n'roll al centro di un discorso in cui la musica si fa portatrice di salvezza,
redenzione, gioia ed estasi collettiva, come se il paradiso, una volta tanto,
si potesse trovare "in tutti i momenti in cui siamo insieme / ci chiudiamo in
camera da letto / e ascoltiamo i tuoi dischi". (Gianfranco Callieri)