Son of the Velvet Rat
The Late Show
[Fluff & Gravy Records 2018]

sonofthevelvetrat.com

File Under: aninali notturni

di Gianfranco Callieri (25/08/2018)

Descrivendosi come un intreccio tra le suggestioni europee di maestri quali Georges Brassens, Jacques Brel e Fabrizio De André con quelle "profetiche, veterotestamentarie e cabalistiche" di Leonard Cohen e Townes Van Zandt, forse i Son Of The Velvet Rat, sigla dietro la quale si celano (dal 2003) il cantautore austriaco Georg Altziebler e la di lui compagna Heike Binder, peccano d'immodestia. Eppure, ascoltando The Late Show, primo album dal vivo dei nostri dopo il quasi carbonaro Live Tape (2014) e soprattutto il primo a uscire dopo il trasloco della coppia negli Stati Uniti e la collaborazione con Joe Henry dispiegatasi nel precedente, apprezzatissimo Dorado (2017), davvero non si stenta, fatte le debite proporzioni, a riconoscere l'esattezza di tali riferimenti.

Questi ultimi un'altra volta convertiti in dieci canzoni - la maggior parte delle quali estratte dal citato lavoro della scorsa stagione - dal passo di norma solenne, austero e contemplativo, essiccate e arrugginite sotto il sole della California nonché rese crepuscolari dalla suggestione dei grandi spazi pianeggianti del Texas, costruite ricorrendo al sentimento puntiglioso della sospensione e del riserbo, in possesso di un fraseggio nobile e iterativo (esente dalla prerogativa di spiccare voli grandiosi, è vero, ma al tempo stesso al riparo da repentine cadute di stile) eppure in grado, all'occorrenza, di accendersi sull'onda elettrica di un rock springsteeniano di grande eloquenza.

A soddisfare quest'ultimo criterio espressivo provvedono le sei corde febbricitanti di Friends With God e della sanguinaria Another Glass Of Champagne, il ritornello ossessivo (con qualche rimando a Nick Cave) dell'incalzante Do You Love Me? e la compattezza classica dell'ultima Carry On, sebbene poi gli episodi in cui Altziebler (qui accompagnato dalla fisarmonica, dall'organo e dai cori della moglie, dalle tastiere di Dominik Krejan e dai tamburi di Felix Krüger o Muck Willmann) riesca a proporsi più convincente restino quelli in cui le rauche profondità della sua voce s'inabissino nell'accorata cupezza folkie della sempre splendida Sweet Angela (davvero uno di quei brani che meriterebbero il titolo, altrimenti abusato e sminuente, di "apocrifo dylaniano"), nella cadenzata e quasi punkeggiante psichedelia di Surfer Joe, nelle risonanze desertiche e visionarie di una Little Flower di continuo oscillante tra slancio e introversione, tra melodramma e preghiera.

Non è tutto, perché nella quiete folk-rock di Moment Of Fame - una scheggia di immedesimazione nei panni di Eric Andersen, o di Kris Kristofferson - si assapora il gusto della miglior canzone d'autore, mentre nei tratti arcadici di una Lovesong No. 9 in apparenza sbucata dall'epopea country-rock di quarant'anni fa si scorgono l'immediatezza e la chiarezza di una tradizione senza tempo. Certo, nessuna descrizione, per quanto meticolosa, potrà conferire a The Late Show, registrato tra Austria, Germania e America settentrionale, quell'urgenza che, non essendo le sue tracce così diverse dai loro prototipi in studio, non sembra in fondo appartenergli. Poco male: per il neofita o per l'estimatore di lungo corso (anche se dubito costoro siano poi così numerosi), per chi intende scoprirli o per chi ne vuole ripassare il repertorio, l'undicesimo album dei Son Of The Velvet Rat saprà darsi come ennesima testimonianza sull'incanto sonoro di un'America sognata, desiderata, assaporata da lontano e infine vissuta privilegiando la marginalità erratica dei percorsi secondari anziché i ripetitivi nastri d'asfalto delle grandi autostrade.


    

 


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