Descrivendosi come un intreccio tra le suggestioni europee di maestri quali Georges
Brassens, Jacques Brel e Fabrizio De André con quelle "profetiche, veterotestamentarie
e cabalistiche" di Leonard Cohen e Townes Van Zandt, forse i Son Of The Velvet
Rat, sigla dietro la quale si celano (dal 2003) il cantautore austriaco Georg
Altziebler e la di lui compagna Heike Binder, peccano d'immodestia. Eppure, ascoltando
The Late Show, primo album dal vivo dei nostri dopo il quasi carbonaro
Live Tape (2014) e soprattutto il primo a uscire dopo il trasloco della coppia
negli Stati Uniti e la collaborazione con Joe Henry dispiegatasi nel precedente,
apprezzatissimo Dorado
(2017), davvero non si stenta, fatte le debite proporzioni, a riconoscere l'esattezza
di tali riferimenti.
Questi ultimi un'altra volta convertiti in dieci
canzoni - la maggior parte delle quali estratte dal citato lavoro della scorsa
stagione - dal passo di norma solenne, austero e contemplativo, essiccate e arrugginite
sotto il sole della California nonché rese crepuscolari dalla suggestione dei
grandi spazi pianeggianti del Texas, costruite ricorrendo al sentimento puntiglioso
della sospensione e del riserbo, in possesso di un fraseggio nobile e iterativo
(esente dalla prerogativa di spiccare voli grandiosi, è vero, ma al tempo stesso
al riparo da repentine cadute di stile) eppure in grado, all'occorrenza, di accendersi
sull'onda elettrica di un rock springsteeniano di grande eloquenza.
A
soddisfare quest'ultimo criterio espressivo provvedono le sei corde febbricitanti
di Friends With God e della sanguinaria
Another Glass Of Champagne, il ritornello ossessivo (con qualche rimando a
Nick Cave) dell'incalzante Do You Love Me? e
la compattezza classica dell'ultima Carry On,
sebbene poi gli episodi in cui Altziebler (qui accompagnato dalla fisarmonica,
dall'organo e dai cori della moglie, dalle tastiere di Dominik Krejan e dai tamburi
di Felix Krüger o Muck Willmann) riesca a proporsi più convincente restino quelli
in cui le rauche profondità della sua voce s'inabissino nell'accorata cupezza
folkie della sempre splendida Sweet Angela
(davvero uno di quei brani che meriterebbero il titolo, altrimenti abusato e sminuente,
di "apocrifo dylaniano"), nella cadenzata e quasi punkeggiante psichedelia di
Surfer Joe, nelle risonanze desertiche e visionarie di una Little
Flower di continuo oscillante tra slancio e introversione, tra melodramma
e preghiera.
Non è tutto, perché nella quiete folk-rock di Moment Of
Fame - una scheggia di immedesimazione nei panni di Eric Andersen, o di Kris
Kristofferson - si assapora il gusto della miglior canzone d'autore, mentre nei
tratti arcadici di una Lovesong No. 9 in apparenza sbucata dall'epopea
country-rock di quarant'anni fa si scorgono l'immediatezza e la chiarezza di una
tradizione senza tempo. Certo, nessuna descrizione, per quanto meticolosa, potrà
conferire a The Late Show, registrato tra Austria, Germania e America settentrionale,
quell'urgenza che, non essendo le sue tracce così diverse dai loro prototipi in
studio, non sembra in fondo appartenergli. Poco male: per il neofita o per l'estimatore
di lungo corso (anche se dubito costoro siano poi così numerosi), per chi intende
scoprirli o per chi ne vuole ripassare il repertorio, l'undicesimo album dei Son
Of The Velvet Rat saprà darsi come ennesima testimonianza sull'incanto sonoro
di un'America sognata, desiderata, assaporata da lontano e infine vissuta privilegiando
la marginalità erratica dei percorsi secondari anziché i ripetitivi nastri d'asfalto
delle grandi autostrade.