Son of The Velvet Rat
Dorado
[
Fluff And Gravy
2017]

sonofthevelvetrat.com

File Under: Gli innocenti in America

di Gianfranco Callieri (07/06/2017)

Prima di imbattermi in questo disco non avevo mai sentito nominare i Son Of The Velvet Rat, progetto del cantautore austriaco Georg Altziebler e della sua consorte, l'organista e fisarmonicista Heike Binder, e oggi, pur avendone scoperto la già cospicua discografia (composta da ben dieci album), continuo a pensare i suddetti marito e moglie si siano celati dietro al nome più brutto del mondo. Siccome però le apparenze ingannano (altrimenti nessuno di noi avrebbe dovuto ascoltare i dischi di Porno For Pyros, Smashing Pumpkins o, santo cielo, Mott The Hoople), è stato altresì un piacere rendersi conto di come la musica del "figlio del topo di velluto" risulti decisamente più suggestiva della sua intestazione.

Innamorati nella stessa misura della desolazione country-folk di Townes Van Zandt come del lerciume di certo garage, delle sfumature di nero del più pensoso Greg Brown come degli archetipi della narrazione e del paesaggio a stelle e strisce (la coppia si è di recente trasferita a Joshua Tree, nella California meridionale) i SotVR, nel cui repertorio campeggiano collaborazioni con Lucinda Williams e Ken Coomer (primo batterista dei Wilco), sono dotati di qualcosa in più rispetto agli altri europei con la fissa per la musica americana: del loro supplemento d'ispirazione dev'essersi accorto anche Joe Henry, produttore di questo Dorado e responsabile della definitiva maturazione del suono del gruppo, oggi provvisto di sfumature desertiche, sussulti cinematografici, risonanze elettroacustiche degne del più suggestivo tra i romanzi dedicati all'immaginario della provincia statunitense.

Scortati dal suono elegante, rarefatto e noir, e tuttavia a volte in grado di caricarsi d'elettricità e fiati (si ascolti il rock and roll incalzante di Surfer Joe), tipico dei lavori attribuibili al loro supervisore, Altziebler e Binder sono andati a intrufolarsi in quei margini del territorio nordamericano fatti di cittadine insignificanti, rade fattorie e solitarie case su ruote, dove la vita scorre lentamente e anche le canzoni ripercorrono il sentiero della tradizione senza tradirne le tappe fondamentali: ecco, quindi, scivolare uno dietro l'altro lo shuffle cupissimo di Blood Red Shoes, il Bob Dylan in zona Oh Mercy (1989) di Copper Hill (con il sax malinconico di Kelly Corbin) e quello più epico e rockista della maestosa, stupenda Sweet Angela, l'ambientazione tra folk e gospel (alla Willard Grant Conspiracy prima maniera) dell'introspettiva Shadow Song, il violino funereo dell'iniziale Carry On. Oltre ai musicisti del giro di Henry, ossia Jay Bellerose ai tamburi, Adam Levy alla sei corde, David Plitch al basso e Patrick Warren al pianoforte, di incorniciare in modo omogeneo le sfumature di Dorado si incarica la voce granulosa e affranta di Altziebler (molto simile, per chi se lo ricorda, al Tom Ovans di Tales From The Underground [1995]), vero e proprio valore aggiunto di un'opera che parte molto bene, si sgonfia un po' nella parte centrale e riprende quota, grazie alla nostalgica dimensione country di Tiger Honey e al tono livido, da giorni di pioggia, della conclusiva Franklin Avenue (entrambe bellissime), nella riuscita sequenza di congedo.

Nel 1869, lo scrittore Mark Twain, animato dall'intenzione di dissacrare i pegni pagati da molti suoi colleghi alla supremazia della cultura europea, pubblicò un libro, intitolato "Gli innocenti all'estero", in cui oltre a dichiararsi orgoglioso della propria identità americana ridimensionava la bellezza del fiume Arno mettendolo a confronto con la solenne imponenza del Mississippi. In un certo senso si potrebbe dire Dorado sia il disco perfetto per chi, pur essendo magari cresciuto in mezzo alle sommità delle Alpi Noriche o Venoste, continui a reputare più affascinante, forse per partito preso, la morfologia della Sierra Nevada.


    


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