“I remember”: si apre con queste parole, velate di una
dolce nostalgia, Only the Strong Survive, l’improvviso omaggio
soul di Bruce Springsteen, secondo album di sole cover dal lontano
2006 delle Seeger Sessions. Ed è nel gesto dei ricordi che sembra
ripararsi oggi il nostro protagonista, non da adesso però intento a ripercorrere
la strada da cui è venuto: l’autobiografia, gli show a Broadway, in generale
il tono più meditativo di album come Western Stars e persino i
“recuperi” che alimentavano Letter
to You, tutti segnali di un’altra età artistica, con una fiamma
che almeno in studio arde di meno, si fa più indifesa, anche a costo di
apparire un po’ fioca, indecisa se mettersi veramente in gioco.
I versi in questione arrivano proprio dalla title track, successo di Jerry
Butler del 1969 interpretato anche dal Re, Elvis Presley in persona, a
ribadire come l’intera operazione di Bruce sarà da una parte un tributo
alla sua innocente adolescenza soul di ragazzo bianco innamorato della
black music (legame che qualsiasi appassionato del rocker del New Jersey
ben conosce fin dagli esordi), e dall’altra un palese tentativo di vestire
i panni dell’interprete, del semplice cantante, inseguendo quel “pure
singing”, come ha affermato di recente al Tonight Show di Jimmy
Fallon, che la tradizione gospel trasmutata in quella soul e pop nera,
soprattutto di casa Motown, ha insegnato all’America intera.
Il progetto è presto servito, anche se smussato di molti spigoli e incentrato
sul gesto romantico (sono fondamentalmente tutte canzoni d’amore); le
intenzioni senz’altro meritorie, e il “singer” è proprio lì, al centro
dei riflettori, con una voce che è consapevole dei suoi “limiti”, del
raggio d’azione entro il quale potrà muoversi, ma fa il suo lavoro con
onestà, senza chiedersi se sarà all’altezza degli originali. Resta anche
la parte più convincente di Only the Strong Survive, dove
il calore e la generosità di Springstreen non sono (quasi) mai in discussione,
giusto un paio di inciampi veniali, mentre qualche serio problema in più
lo pone la stessa realizzazione dell’album. Suonato in buona parte dal
solo produttore Ron Aniello, sorta di timoniere o tiranno a seconda dei
punti vista, puntellato dagli interventi dei ribattezzati The E Street
Horns, e sostenuto giusto dai camei vocali dell’ospite Sam Moore (Sam&
Dave) in Soul Days e I Forgot To be Your Lover, il disco
soffre spesso di una staticità artefatta, di un’energia, quella dell’interprete
Bruce, un po’ repressa e schiacciata dagli eventi che lo circondano.
Anche la presenza a volte ridondante, fuori dai margini, di alcuni cori
femminili, o la scontata insistenza su certe soluzioni vagamente “spectoriane”
(Phil Spector è da sempre un’ossessione musicale anche dello Springsteen
produttore) che infarciscono di archi e sontuose pareti sonore i brani,
non sembrano aiutare del tutto l’anima di queste canzoni. Le quali scaturiscono
da un sincero amore, non c’è dubbio, perché al netto di pochi intramontabili
classici (forse davvero la sola Don't Play That
Song di Ben E. King, guarda caso non tra le più riuscite, mentre
la leziosa Nightshift dei Commodores parla più al pubblico pop),
Springsteen ha volutamente setacciato nelle “retrovie”, tra gemme da intenditori
e persino in tardive scoperte, come i Four Tops di When She Was My
Girl (ritorno sulle scene del 1981) o i Temptations dimenticati di
I Wish It Would Rain (brano del 1967), fino a ripescare nomi come
Tyrone Davis (Turn Back the Hands of Time), Frank Wilson (Do
I Love You Indeed I Do) o il grandissimo ma spesso dimenticato autore
di casa Stax, William Bell (ben due episodi, la citata I
Forgot To be Your Lover e Any Other
Way, tra i momenti più ispirati del disco), che certamente
non rientrano nell’immediato pantheon dei giganti del genere, piuttosto
nell’affetto viscerale che solo un autentico “soul addicted” può vantare.
In questo senso Only the Strong Survive riesce ad assolvere al
compito di spalancare le porte sui misteri e la bellezza di una musica
che il grande pubblico mainstream raccolto intorno a Springsteen non conosce
in tutti i dettagli (neppure la maggior parte di noi, possiamo confessarlo).
È però una “missione” temporanea, che dura lo spazio di una stagione di
amarcord, ma non ci dice esattamente cosa Bruce Springsteen voglia fare
da qui in avanti per tornare a sorprenderci davvero. O forse sì, magari
trasformarsi in quel semplice cantante, sgravato dal peso del suo mito
rock.