È tutto racchiuso nel destinatario di quella lettera
- Letter to You, seconda traccia dell’album omonimo e vera e propria
introduzione al sound che detterà la fisionomia del disco - il segreto
da decifrare sull’inatteso ritorno di Bruce Springsteen con la
E Street Band: è un tu personale e collettivo al tempo stesso, in un colpo
solo è una lettera d’amore spedita a se stesso, superati ormai i settanta,
a un amore concreto e a una folla che lo circonda con affetto. Dopo avere
narrato l’America là fuori, i suoi caratteri, tra sogni e incubi, colti
nel momento del riscatto o della sconfitta, Springsteen approda a quello
che in fondo è il naturale esito di un percorso iniziato con la sua confessione
in pubblico (gli spettacoli a Broadway e la relativa autobiografia) e
un senso di nostalgia che lo circonda da diversi anni: solo che quella
che un tempo era la nostalgia della giovinezza rock, dell’adolescenza
eterna prodotta da un desiderio elettrico (l’età di Born to Run,
fino alla chiusura del cerchio di Born in the Usa), adesso è diventata
semmai lo specchio di un’età del crepuscolo, tra dubbi, commemorazioni,
incertezze da una parte, e ricerca di comunità e incontro dall’altra,
qui riassunta da una House Of A Thousand Guitars
che vorrebbe essere un inno, ma pare piuttosto una consolazione.
Nel mezzo c’è la E Street Band, con chitarre, sax e organi pronti a muoversi
su un copione già scritto, che inevitalbimente Springsteen deve avere
pensato come l’unico collante per tenere insieme questo suo gesto di rievocazione,
ispirato, così ammette egli stesso, dalla scomparsa di George Theiss,
l’ultimo superstite della prima rock’n’roll band di Bruce nel New Jersey
della fine degli anni Sessanta, i Castiles. Springsteen è così rimasto
Last Man Standing e nell’ostinata ricreazione di una stagione perduta,
modella un disco che scalcia con più animosità di tutte le recenti - spesso
interlocutorie, quando non assai sfuocate - prove di studio. La sola introduzione
acustica di One Minute You’re Here, con lo sfondo dei leggeri archi,
sembra fare da anello di congiunzione con l’olegrafia folk di Western
Stars, mentre quello che segue non elimina affatto la necessità
di ingrossare il suono, di cercare quell’enfasi plasmata già sulle sue
future incursoni live (Burnin’ Train,
la pulsante Ghosts, l’immancabile sax che ruba lo spirito al fratello
Clarence Clemons in Power of Prayer), oppure di esprimere necessariamente
il suo stato d’animo “politico” (il debole wall of sound che accompagna
Rainmaker, pare scritta negli anni di Bush ma resa attuale dall’America
in attesa del voto pro o contro Trump).
Non è un caso dunque che a brillare siano soprattutto quei brani che Sprinsgteen
ha ripreso dai cassetti della sua gioventù settantesca, per rifondervi
un ultimo soffio vitale: la Janey Needs a Shooter
(che appartenne, in altra versione riscritta e musicata, anche dell’amico
Warren Zevon), la quale arde qui di una fiamma che pare innalzarsi in
volute dal buio di Darkness on the Edge of Town; la rutilante ballata
elettrica If I Was the Priest, dove
il riferimento religioso-spirituale è semmai un trasporto personale; e
infine la confessione da “nuovo Dylan” di Song
for Orphans, verbosa e lirica come gli anni che precedettero
l’esordio di Greetings, ma con il vestito a festa della E Street Band.
E poi c’è quella Letter to You, che musicalmente resta la fotografia
incerta dell’album, eppure lancia chiaro e tondo il messaggio nella bottiglia,
tesse il filo conduttore di un disco fatto di una luce riflessa (quella
della banda di amici riunita, con il generoso saluto finale di I’ll
See You in My Dreams) e di un’ombra incombente (quella dell’invecchiamento,
con cui Springsteen continua a fare i conti), un’indecisione che pone
il protagonista ancora sulla strada, ma un po’ più solo, perso nel “Grande
Freddo” della copertina.