Durante il lockdown Lucinda Williams ha registrato
una serie di concerti tematici senza pubblico trasmessi in streaming dal
Room & Board Studio di Nashville, aiutando con parte del ricavato i locali
musicali indipendenti. Con il titolo di Lu’s Jukebox sono stati
omaggiati tre artisti (Tom Petty, Bob Dylan e Rolling Stones) e tre generi
(christmas, country e southern soul). Questo è il secondo volume pubblicato
anche in formato fisico (cd e vinile) dopo l’omaggio a Tom
Petty.
E’ inevitabile che la voce di Lucinda abbia perso forza, pulizia e duttilità
rispetto al passato: per capirlo basta paragonare la versione dell’unico
pezzo autografo, Still I Long For Your Kiss,
rispetto alla versione originale di Car Wheels On A Gravel Road.
Tuttavia in questo tributo la Williams riesce a cavarsela egregiamente,
interpretando con la giusta dose di pigrizia e di abbandono da matura
ragazza del sud alcuni brani che sono dei veri e propri classici del southern
soul, un genere nato dalla fusione di blues, country e rock and roll,
con l’aggiunta di una forte influenza gospel, di cui sono stati interpreti
icone come Otis Redding, Bobby “Blue” Bland, Rufus Thomas, pubblicato
principalmente da etichette di Memphis (Stax, Hi Records, Goldwax), senza
dimenticare l’influenza dei Muscle Shoals Studios dell’Alabama.
Lucinda riprende dieci brani usciti come singoli negli anni Sessanta e
Settanta a partire da Games People Play
di Joe South leggermente indurita dalle chitarre di Stuart Mathis e Joshua
Grange, che la accompagnano unitamente alla batteria di Fred Eltringham
e al basso di Steve Mackey. You’ll Lose a Good Thing, top ten del
’62 di Barbara Lynn accentua la pigrizia dell’originale, non potendo competere
dal punto di vista vocale, mentre Ode To Billie
Joe (n.1 nel ’67) è più cupa della magnifica versione di Bobbie
Gentry e priva di archi. Non tutte le esecuzioni sono riuscite: I Can’t
Stand The Rain ha una certa durezza e rigidità anche nella voce e
It Tears Me Up è vocalmente un po’ faticosa. Convincono di più
le ballate Misty Blue, essenziale rispetto alle patinate versioni
dei sixties, Main Street Mission rallentata e asciugata dalle influenze
gospel e You Don’t Miss Your Water. Nella parte finale, oltre all’unico
brano autografo citato in precedenza, Rainy Night
In Georgia di Tony Joe White, hit di Brook Benton nel ’70 e
ripresa da innumerevoli artisti, ha la giusta dose di indolenza, mentre
Take Me To The River di Al Green è rallentata e indurita dalla
batteria cadenzata e dalle chitarre che si lasciano andare nella coda
strumentale confermando il loro ruolo centrale.
Southern Soul è l’omaggio di un’artista a uno dei generi
con i quali è cresciuta, un’aggiunta forse non indispensabile a una discografia
corposa e di alto livello, ma che non mi sento di definire superflua.