Gioca tra le mura di casa Sean Beam per dare respriro al
suo live album più completo e caratterizzante, in grado di definire una
carriera ventennale che lo ha visto entrare e uscire dal labirinto del
linguaggio indie folk, tracciandone spesso le evoluzioni e dettandone
le nuove regole a favore delle nuove generazioni di songwriter. Diciannove
brani che ripercorrono l’intera produzione discografica della creatura
Iron and Wine, Who Can See Forever nasce a ridosso del tour
successivo alla pubblicazione di Beast
Epic, due serate “confidenziali” con il proprio pubblico tenutesi
presso la Haw River Ballroom di Saxapahaw, North Carolina, da qualche
tempo terra di adozione di Beam, in realtà nato e cresciuto nell’altra
Carolina, quella del sud.
Tuttavia non si tratta di una semplice testimonianza dal vivo, bensì di
una sorta di colonna sonora che accompagna l’omonimo documentario firmato
dal regista Josh Sliffe, il quale all’idea tradizionale del film-concerto
ha aggiunto una visione più ampia sull’artista e compositore Sea Beam
in arte Iron and Wine, fornendo così un ritratto completo dell’uomo e
dell’autore, tra vita personale e atto creativo, sbirciando anche dietro
le quinte della sua carriera. Non avendo al momento la possibilità di
cogliere le immagini, ci resta l’essenza sonora di Who Can See Forever,
e non è poco per chi da sempre considera il percorso di Iron and Wine
un intenso e curioso vagabondaggio fra le sensibilità più folkie e acustiche
della tradizione e gli stimoli di una canzone che negli anni si è aperta
coraggiosamente alle contaminazioni con il pop, l’indie rock e persino
la black music, soprattutto nelle sue spinte soul e jazz.
Registrato in presa diretta dallo storico collaboratore Jelle Kuiper e
mixato dal produttore Matt Ross-Spang, Who Can See Forever restituisce
plasticamente questo percorso, sebbene catturi Iron and Wine nell’atto
del suo ritorno alla dimensione più acustica e cantautorale (la stessa
annunciata dai recenti lavori di studio, partendo dal citato Beast
Epic), senza rinunciare però allo slancio sperimentale e ritmico di
opere quali Kiss
Each Other Clean e Ghost on Ghost, dischi dai quali attinge
in parte la scaletta del concerto, reinventando quelle sonorità e adattandole
alle dinamiche dell'attuale band. Già, il gruppo: qui emerege una buona
parte del fascino e della riuscita di Who Can See Forever, anche
in maniera sorprendente, sgusciando dall’introduzione soffusa di The
Trapeze Song, istantanea dello stile più sussurrato e peculiare di
Iron and Wine, verso le serpeggianti sonorità di brani quali Woman
King o le strutture ritmiche multiformi di House by the Sea.
Sono soltanto alcuni esempi della bellezza complessa eppure affabile che
la musica di Iron and Wine riesce a restituire in questo live, merito
per l’appunto di una formazione che ha il suo nucleo palpitante nel binomio
formato da uno sbalorditivo Sebastian Steinberg al contrabasso e da Beth
Goodfellow alla batteria e percussioni assortite, mentre la parte “lirica”
e carezzevole è restituita dall’ottima Eliza Hardy-Jones al pianoforte,
con la complicità della violoncellista Teddy Rankin-Parker. Appoggiandosi
spesso anche al sostegno vocale dei “comprimari”, Sean Beam può così liberare
la qualità melodica e sognante della sua scrittura, proponendo piccoli
gioielli personali come Boy with a Coin, About a Bruise,
Naked as We Came, per approdare al finale di una dolcissima Muddy
Hymnal, che sembra chiudere il cerchio rileggendo con vivacità gli
esordi solitari di un album quale The Creek Drank the Cradle.
Nel mezzo c’è davvero spazio per ogni dettaglio di un songwriting che
ha fatto della confessione indie folk una cifra personale inconfondibile,
traghettando la lezione di Nick Drake ai tempi dello struggimento pop
di Elliott Smith e alla malinconia uggiosa di Mark Kozelek (Red Hosue
Painters), da sempre punti di riferimento di Beam, eppure mai condizionamenti
tali da tarpare le ali di una scrittura musicale con sufficiente fantasia
per camminare sulle proprie gambe, tra i rintocchi americana di una irresistibile
Thomas County Law e l’anima brit-folk sprigionata da Pagan Angel
and a Borrowed Car, improvvisamente alterate dalle evasioni “free”
e jazzy di episodi quali Monkeys Uptown e Wolves (Song of the
Shepherd’s Dog), che insieme al battito di Dearest Forsaken
rappresentano alcuni dei passaggi più magnetici di questo essenziale Who
Can See Forever.