Travolge come un fiume in piena questa nuova uscita discografica di Sam Bean,
in arte Iron & Wine: capovolgimento di fronte totale (o quasi…) che spiazzerà
non poco chi era già pronto a cristallizzare la musica del barbuto songwriter
come l'ultima frontiera del neo-folk americano, ideale compendio di un'intera
generazione di autori alla riscoperta delle bucoliche melodie acustiche e della
più ferrea tradizione. Tuttavia, per chi aveva già colto nelle sovrapposizioni
sonore del solidissimo The
Sheperd's Dog una maturazione costante rispetto agli esordi così timidi
e scarni, non risulterà del tutto straniante trovarsi faccia a faccia con le stratificazioni
ritmiche e il singolare "wall of sound" concepito con il produttore Brian Deck
in Kiss Each other Clean. Non è un caso che quest'ultimo abbia
lavorato in sequenza con Red Red Meat e Califone, band capostipiti di una manipolazione
intelligente dell'elettronica al servizio della canzone folk rock più classica.
Nella sarabanda di loop e sintetizzatori, di fiati, flauti, cori incantati e pulsazioni
ai confini con il funk e il dub, Kiss Each Other Clean mantiene l'anima di un
tempo, soltanto caricandola di una coraggiosa sperimentazione.
Per qualcuno
il rischio è che la voce di Iron & Wine, così caratteristica in quel suo fragile
sussurro, si perda nel vortice dei suoni o ne esca persino distanziata, quasi
non riuscisse ad amalgamarsi con tutto il resto. La sensazione è forte, eppure
Sam beam non ha mai cantato così bene come in questa occasione, trascinando la
sua delicata timbrica in una inedita dimensione: ci si accorge del cambio alla
prima strofa di Walking Far from Home, rapimento
pop che introduce un disco sorprendente per la sua confluenza di stimoli, là
dove l'incanto dei Beach Boys (sempre loro, inevitabili in questi casi) si intreccia
con il battito black di James Brown e Stevie Wonder, aggiornati da vent'anni di
indie rock e magari persino da un rigurgito di docile psichedelia. Che si tratti
di una vera e propria metamorfosi - anche pronta a impantanarsi e perdersi per
strada a costo di salvaguardare la propria invettiva - lo capiamo dal sax di Me
and Lazarus, dalle movenze sintetiche di Monkeys
Uptown e dall'organo stridente che fende l'aria in Rabbit
Will Run.
È un salto nel vuoto e forse soltanto al prossimo
giro potremmo realmente renderci conto delle intenzioni di Iron & Wine: qui a
volte pare trattenersi e cercare un momento di respiro nel passato prossimo della
sua musica, tra la leggerezza di Half Moon
e la soavità di una splendida ballata pianistica intitolata Brother
in Love (ancora centrale il ruolo dei cori e tra gli altri di Sarah
Simpson, letteralmente rapiti nel finale). Il finale però è liberatorio e votato
all'ignoto: torna prepotenmente l'elemento black con Big
Burned Hand, sovrapposizione di irresistibili ritmi funk blues, si
placa l'animo con Glad Man Singing, quasi
una moderna gita sulla West Coast, ma in chiusura tutto congiura nella sintesi
impazzita di Your Fake Name Is Good Enough for Me,
con un sax un po' free e una canzone letteralmente spaccata in due capitoli. Nella
seconda parte si innalza una sorta di preghiera rock, una litania che sfiora i
sette minuti...e se non è già la canzone dell'anno poco ci manca. (Fabio
Cerbone)