inserito 07/02/2010

Iron & Wine
Kiss Each Other Clean
[4AD/Self
 2011
]



Travolge come un fiume in piena questa nuova uscita discografica di Sam Bean, in arte Iron & Wine: capovolgimento di fronte totale (o quasi…) che spiazzerà non poco chi era già pronto a cristallizzare la musica del barbuto songwriter come l'ultima frontiera del neo-folk americano, ideale compendio di un'intera generazione di autori alla riscoperta delle bucoliche melodie acustiche e della più ferrea tradizione. Tuttavia, per chi aveva già colto nelle sovrapposizioni sonore del solidissimo The Sheperd's Dog una maturazione costante rispetto agli esordi così timidi e scarni, non risulterà del tutto straniante trovarsi faccia a faccia con le stratificazioni ritmiche e il singolare "wall of sound" concepito con il produttore Brian Deck in Kiss Each other Clean. Non è un caso che quest'ultimo abbia lavorato in sequenza con Red Red Meat e Califone, band capostipiti di una manipolazione intelligente dell'elettronica al servizio della canzone folk rock più classica. Nella sarabanda di loop e sintetizzatori, di fiati, flauti, cori incantati e pulsazioni ai confini con il funk e il dub, Kiss Each Other Clean mantiene l'anima di un tempo, soltanto caricandola di una coraggiosa sperimentazione.

Per qualcuno il rischio è che la voce di Iron & Wine, così caratteristica in quel suo fragile sussurro, si perda nel vortice dei suoni o ne esca persino distanziata, quasi non riuscisse ad amalgamarsi con tutto il resto. La sensazione è forte, eppure Sam beam non ha mai cantato così bene come in questa occasione, trascinando la sua delicata timbrica in una inedita dimensione: ci si accorge del cambio alla prima strofa di Walking Far from Home, rapimento pop che introduce un disco sorprendente per la sua confluenza di stimoli, là dove l'incanto dei Beach Boys (sempre loro, inevitabili in questi casi) si intreccia con il battito black di James Brown e Stevie Wonder, aggiornati da vent'anni di indie rock e magari persino da un rigurgito di docile psichedelia. Che si tratti di una vera e propria metamorfosi - anche pronta a impantanarsi e perdersi per strada a costo di salvaguardare la propria invettiva - lo capiamo dal sax di Me and Lazarus, dalle movenze sintetiche di Monkeys Uptown e dall'organo stridente che fende l'aria in Rabbit Will Run.

È un salto nel vuoto e forse soltanto al prossimo giro potremmo realmente renderci conto delle intenzioni di Iron & Wine: qui a volte pare trattenersi e cercare un momento di respiro nel passato prossimo della sua musica, tra la leggerezza di Half Moon e la soavità di una splendida ballata pianistica intitolata Brother in Love (ancora centrale il ruolo dei cori e tra gli altri di Sarah Simpson, letteralmente rapiti nel finale). Il finale però è liberatorio e votato all'ignoto: torna prepotenmente l'elemento black con Big Burned Hand, sovrapposizione di irresistibili ritmi funk blues, si placa l'animo con Glad Man Singing, quasi una moderna gita sulla West Coast, ma in chiusura tutto congiura nella sintesi impazzita di Your Fake Name Is Good Enough for Me, con un sax un po' free e una canzone letteralmente spaccata in due capitoli. Nella seconda parte si innalza una sorta di preghiera rock, una litania che sfiora i sette minuti...e se non è già la canzone dell'anno poco ci manca.
(Fabio Cerbone)

www.ironandwine.com
www.myspace.com/ironandwine

 

   


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