Kevin Morby
Sundowner
[Dead Oceans/ Goodfellas 2020]

Sulla rete: kevinmorby.com

File Under: corale folk


di Fabio Cerbone (20/10/2020)

Ballate da crepuscolo, con quell’aria imbambolata e folkie che riconduce agli esordi di carriera dell’artista, rappresentano il tratto essenziale di questo Sundowner, inversione di marcia repentina rispetto al suono corale e di influenza gospel che aveva dominato, soltanto un anno fa, l’ambizioso Oh My God. Kevin Morby è oggi l’uomo del tramonto, un songwriter che sembra seguire, come molti colleghi della sua generazione, una sorta di istinto umbratile, registrando secondo le esigenze del momento. Così è accaduto per questo Sundowner, dieci ballate uggiose che riducono al minimo gli artifici dello studio, partendo da una manciata di demo acustiche che Morby aveva inciso e poi messo a riposo, mentre era impegnato a promuovere il disco precedente.

Il ritiro forzato, seguito all’esplosione della pandemia, e l’impossibilità di muoversi in tour deve avere accelerato il desiderio di imprimere su nastro quesi bozzetti. I quali in parte restano tali, pur se autonomi nella forma scarna e nel far emergere l’animo più languido, assonnato dell’autore, tornando sui passi che hanno preceduto la sua svolta folk rock psichedelica e quella urbana di album apprezzati come Singing Saw e City Music. Il tono è desolato e sospeso, intimo nella delicatezza delle riflessioni, tutte incentrate su un mondo interiore, che lascia l’energia fuori dalla porta e vaga ramingo tra i sobbalzi “dylaniani” dell’iniziale Valley e si accasa tra le malinconie domestiche dell’omonima Sundowner. Musica per cuori affranti e solitari, qualche volta a rischio di accartocciarsi sulle sue stesse fragilità, ma anche capace di trovare, pur nel suo costante minimalismo sonoro, soluzioni stranianti: come l’incedere ritmico spezzato di Brother Sister, il passaggio a due tempi di Campfire (di fatto due canzoni in una, e nel mezzo il vero e proprio crepitio di un fuoco da campo), l’improvviso rumoreggiare elettrico di Wander, la placida melodia serale che attraversa A Night at The Little Los Angeles, persino un fortuito ma affascinante strumentale pianistico intitolato Velvet Highway.

Dappertutto le stelle polari di Morby si palesano senza mistero: il Lou Reed dal volto di “crooner” e narratore urbano, naturalmente le radici folk di Bob Dylan già ricordate in precedenza, e un po’ della poetica di Leonard Cohen, elementi che qui possiamo cogliere nell’elegia acustica di Jamie, nel beat elettronico e scheletrico che accompagna Don’t Understimate Midwest American Sun, nel finale crepuscolare di Provisions. Al disco non manca certo una coerenza nella produzione e una voce musicale, che lo rendono a suo modo capace di ammaliare, ma soltanto se si è disposti ad accogliere la “pigrizia” delle sue melodie, come una caratteristica irrinunciabile del fare musica di Kevin Morby.


    


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