Ballate da crepuscolo, con quell’aria imbambolata
e folkie che riconduce agli esordi di carriera dell’artista, rappresentano
il tratto essenziale di questo Sundowner, inversione di
marcia repentina rispetto al suono corale e di influenza gospel che aveva
dominato, soltanto un anno fa, l’ambizioso Oh
My God. Kevin Morby è oggi l’uomo del tramonto, un songwriter
che sembra seguire, come molti colleghi della sua generazione, una sorta
di istinto umbratile, registrando secondo le esigenze del momento. Così
è accaduto per questo Sundowner, dieci ballate uggiose che riducono
al minimo gli artifici dello studio, partendo da una manciata di demo
acustiche che Morby aveva inciso e poi messo a riposo, mentre era impegnato
a promuovere il disco precedente.
Il ritiro forzato, seguito all’esplosione della pandemia, e l’impossibilità
di muoversi in tour deve avere accelerato il desiderio di imprimere su
nastro quesi bozzetti. I quali in parte restano tali, pur se autonomi
nella forma scarna e nel far emergere l’animo più languido, assonnato
dell’autore, tornando sui passi che hanno preceduto la sua svolta folk
rock psichedelica e quella urbana di album apprezzati come Singing
Saw e City
Music. Il tono è desolato e sospeso, intimo nella delicatezza
delle riflessioni, tutte incentrate su un mondo interiore, che lascia
l’energia fuori dalla porta e vaga ramingo tra i sobbalzi “dylaniani”
dell’iniziale Valley e si accasa tra
le malinconie domestiche dell’omonima Sundowner. Musica per cuori
affranti e solitari, qualche volta a rischio di accartocciarsi sulle sue
stesse fragilità, ma anche capace di trovare, pur nel suo costante minimalismo
sonoro, soluzioni stranianti: come l’incedere ritmico spezzato di
Brother Sister, il passaggio a due tempi di Campfire
(di fatto due canzoni in una, e nel mezzo il vero e proprio crepitio di
un fuoco da campo), l’improvviso rumoreggiare elettrico di Wander,
la placida melodia serale che attraversa A Night at The Little Los
Angeles, persino un fortuito ma affascinante strumentale pianistico
intitolato Velvet Highway.
Dappertutto le stelle polari di Morby si palesano senza mistero: il Lou
Reed dal volto di “crooner” e narratore urbano, naturalmente le radici
folk di Bob Dylan già ricordate in precedenza, e un po’ della poetica
di Leonard Cohen, elementi che qui possiamo cogliere nell’elegia acustica
di Jamie, nel beat elettronico e scheletrico che accompagna Don’t
Understimate Midwest American Sun, nel finale crepuscolare di Provisions.
Al disco non manca certo una coerenza nella produzione e una voce musicale,
che lo rendono a suo modo capace di ammaliare, ma soltanto se si è disposti
ad accogliere la “pigrizia” delle sue melodie, come una caratteristica
irrinunciabile del fare musica di Kevin Morby.