Kevin Morby
Oh My God
[
Dead Oceans / Goodfellas 2019]

kevinmorby.com

File Under: indie gospel

di Fabio Cerbone
(08/05/2019)

Nell’espressione Oh My God, Kevin Morby raccoglie un senso di sacro e profano al tempo stesso: anche lo scatto di copertina (brutta, possiamo dircelo) sembra suggerire questa doppia lettura, una tipica icona religiosa alle spalle, un primo piano di Morby a petto nudo che guarda nell’obiettivo. Cosa intendesse cogliere nella scelta del titolo del nuovo album è confermato dai suoi contenuti musicali e lirici, pericolosamente abbracciati all’idea di “concept”, pratica che nel campo del’indie rock da cui proviene il nostro Kevin è quanto meno vista con sospetto e altrettanto poco frequentata. Ma di questo si tratta, scorrendo la sceneggiatura del suo quinto lavoro solista, in fondo un’evoluzione naturale del percorso precedente, pur cambiando approccio e sfondo.

Se, infatti, un disco come Singing Saw svelava una psichedelia pastorale, e un folk rock influenzato dagli orizzonti californiani (Los Angeles è la casa dell’autore da diversi anni), se il successivo City Music rappresentava invece un’ode scoperta al suono della New York di Lou Reed, Oh My God è il suo slancio generoso nella materia gospel, una raccolta spirituale più che religiosa in senso stretto, dove il ruolo del pianoforte, di un languido sax e delle numerose voci femminili di contorno rende la musica di Morby più impalpabile, celestiale e assonnata. Il ruolo universale della religione, le sue domande e i suoi retaggi sono il punto di partenza, ammette lo stesso Kevin Morby, ma la scusa è di trovare un senso più personale, intimo a queste ultime: nessuna fregola da “cristiano rinato”, come potrebbe suggerire il suo amato mentore Bob Dylan, piuttosto un Dio “percepito” nell’esperienza umana, partendo dal trillo del pianoforte nell’invocazione della title track, posta all’inizio del viaggio.

Proseguendo in questa scoperta individuale di Morby, a volte forse compiaciuto ma di sicuro effetto nel suo canto pigro, ci troveremo spiazzati dalle percussioni che colorano il ritmo indolente di No Halo, dai cori stranianti che invadono la melodia un po’ spettrale di Savannah e in quelli che spezzano improvvisamente il passo di OMG Rock n Roll, nella prima parte una irresistibile marcetta garage rock con tanto di organetto dai toni sixties, o ancora dallo squarcio elettrico della chitarra di Meg Duffy che irrompe nella pacifica ballata pianistica Seven Days. Più in generale ad avvincere l’ascolto con una dolce apatia è quel sound tutto proiettato in bianco e nero, asciutto, che Morby ha voluto fortemente ricercare insieme al produttore Sam Cohen negli studi di Brooklyn. La chiave di lettura musicale di Oh My God risiede in questa ambizione, nascosta da arrangiamenti soltanto in apparenza “svogliati”, da ballate un po’ sfibrate (Piss River, I Want to Be Clean, Sing a Glad Song), dove di tanto in tanto non possono che emergere le stelle polari della scrittura di Morby, che non rinnega affatto le sue radici folk rock (Hail Mary) ma pare oggi immergerle in questo febbrile respiro spiritual soul (Congratulations, O Behold), con il quale ha saputo dare nuovo fervore alla sua carriera.


    


<Credits>