File Under:jam
band, blues rock di
Fabio Cerbone (03/05/2012)
Dura
la vita dei figli dei fuorilegge: e non tanto per banali questioni carcerarie,
come qualcuno starà pensando, perché qui parliamo dei più "tranquilli"
outlaw musicali, quei banditi del country che hanno scritto la storia (e le svolte)
della musica americana, vista dalla prospettiva indipendente e solitaria del Texas.
Dopo le buone nuove di Shooter Jennings, sulle orme del padre Waylon alla ricerca
di una rappacificazione (il recente, dignitoso come back di Family
man), si rifà vivo anche Lukas Nelson, che il padre Willie lo
ha frequenatato di rado (quanto meno musicalmente) e si è costruito una personale
corazza fatta di rock blues settantesco e jam dai profumi psichedelici fin dagli
esordi con il progetto The Promise of the Real. Gioca naturalmente il fattore
età (Lukas ha poco più di vent'anni e forse il divario generazionale pesa sulle
differenze stilistiche) ma anche un'educazione a suon di chitarre elettriche,
riff di hendrixiana memoria, fughe e tanta improvvisazione.
L'esito del
qui presente Wasted conferma l'andazzo dell'omonimo
esordio di due anni fa, semmai accentuando la libertà compositiva del quartetto
e al tempo stesso evidenziando tutti i limiti di autore del buon Lukas. In questo
caso la mancata supervisione del genitore (o forse soltanto qualche briciolo di
genialità che si è perso per strada...) ha avuto la sua colpa: infatti, nonostante
una certa esuberanza strumentale (Lukas resta un manico sferzante sulla sei corde)
e il proposito originale di sfruttare la tensione ritmica fornita da Anthony LoGerfo
e Tato Melgar (di quest'ultimo le percussioni che vivacizzano diversi brani),
l'album svicola fra mille idee mai veramente concretizzate. Un gran pasticcio
sulla distanza, anche perché non bastano gli intrecci fra organo, chitarre e congas
per rendere Golden Rule qualcosa di più di
una banale rock song, oppure una pedal steel e un'armonica (c'è l'amico di famiglia
Mickey Raphael) ad accarezzare ballate dagli stantii aromi fra country e border
music.
Quello che non riesce ad evitare Lukas Nelson è soprattutto scadere
in un rock'n'roll dalle tinte blues troppo rabberciato: Old
Familiar Pain e Don't Take me Back
avranno anche un bel feeling, ma i loro riverberi così carichi spostano la lancetta
del gusto produttivo indietro nel tempo e l'effetto non è dei più gradevoli. Quando
i suoni poi si dilatano, spuntano velleità da band Americana (Ain't
No Answer) e piccoli sunti di un rock arioso che fa tanto revival anni
70 (Wasn't that Great, Running Away),
ma senza guizzi e con l'incoveniente di quella voce... Già, perché se è vero che
i fraseggi nasali del giovane Lukas possiedono qualcosa di familiare (basterebbero
tracce come Frame of Mind e The
Joint, compresa in quest'ultima la passione per sostanze più o meno
proibite) gli inconfondibili toni jazzy di Willie sono distanti, lasciando al
ragazzo una voce spesso irritante. Il muscoloso rock'n'roll che rialza la testa
con la titlte track o il sogno cosmico e californiano nel finale di If
I Was the Ocean ne sono un'aggravante, più che una liberazione.