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outlaw country, southern rock di
Fabio Cerbone (28/03/2012)
Risollevarsi
dopo quell'irritante pasticcio artistico che è stato Black Ribbons, pretenziosa
opera rock con la narrazione di Stephen King a sancirne una presunta genialità
di scrittura, era per Shooter Jennings quasi un obbligo contrattuale. Se
non altro per chi fin dagli esordi aveva intravisto in lui un possibile traghettatore
della vecchia esperienza outlaw country negli anni 2000. Il figlio del buon vecchio
Waylon ha dunque rimesso la testa a posto e lo ha fatto secondo il clichè del
musicista giunto alla svolta della maturità personale: in Family Man,
titolo rivelatore, parla quindi di affetti familiari, paternità, amore e ricordi,
cercando insomma una via più disciplinata alle sue radici musicali e tornando
soprattutto sulle tracce di un country rock sudista e dal timbro classico. La
boccata d'aria fresca si fa sentire e ne siamo lieti, seppure l'album resti lontano
dalla frizzante spavalderia del debutto e dello stesso The
Wolf, disco poco compreso che invece sintetizzava mirabilmente l'idea
di Shooter di stare con un piede nel mainstream nashvilliano e con l'altro di
riassumere l'intero spettro della southern music che covava in lui.
Family
Man riverbera un mood più rilassato e una produzione - questa volta Jennings fa
tutto da solo nella sua nuova dimora newyorkese - che cerca in tutti i modi di
non perdere il filo del discorso: ci sono il passo spedito di The
Real Me e la ballata spezzacuori The Deed
& the Dollar, primo singolo estratto, a fornirci un'idea del nuovo
corso, nel segno di un country "fuorilegge" che guarda a Merle Haggard, a Willie
Nelson e naturalmente a papà Waylon. Quello che manca a Shooter Jennings per riprendersi
del tutto la sua carriera è forse la coesione da autentica rock'n'roll band che
aveva costruito con suoi vecchi pard (tra cui il bravo Ted Russell Kamp, definitivamente
partito per lidi solisti): oggi ci sono i nuovi arrivati Jon Graboff, Erik Deutsch,
Chris Masterson, Tony Leone e Jeff Hill a sostutuirli, ribattezzati The Triple
Crown, ma l'effetto non è esattamente lo stesso, tanto che il tasso di smargiassate
southern rock si limita ad un incalzante Manifesto No.
4 (riferimento ad episodi precedenti della sua discografia) e alla
più confusionaria Southern Family Anthem.
Quest'ultima è una confessione familiare in piena regola: diverte e mette con
le spalle al muro il "white trash" in cui è cresciuto Shooter Jennings, ma musicalmente
tende sempre a infilarsi in quella accozzaglia di sonorità un po' gonfiate e ai
limiti dell'hard rock più grossolano che il nostro non ha mai rinnegato.
Il
problema è che in questo modo i suoi dischi continuano a barcamenarsi fra le eterne
promesse: Daddy's Hands è un commovente intermezzo
country con l'armonica di Mickey Raphael, The Family
Tree rispolvera dalla soffitta piano, fiddle e mandolino riflettendo
rustici sapori rootsy, ma la comparsata di Tom Morrello (ormai un prezzemolino
discografico) in The Long Road Ahead non risolleva
un'innocua ballata rock un po' gigiona e tanto meno la presenza di Eleanor Whitmore
cancella il disordine della conclusiva Born Again.
Luci e ombre insomma, ma è bello riaverlo sulla strada.