Misurata la presenza
discografica di Tiziano Mazzoni, segno che il cantautore pistoiese culla
nei dettagli i suoi lavori e sente l'esigenza di esprimere suoni e versi attraverso
una cura non comune, magari attendendo il momento e l'ispirazione giusti per farsi
sentire. Mancava all'appello dal 2011 con l'ottimo Goccia
a goccia, album che lo faceva incontrare con uno spirito musicale
affine, quello di Massimo Bubola, il quale ospitava il disco sulla sua Eccher
music e ribadiva certi legami fra canzone d'autore italiana e percorsi folk americani.
Allora erano coinvolti musicisti importanti, che Mazzoni aveva incrociato lungo
il suo percorso, finendo per collaborare con Ellade Bandini e Giorgio Cordini
fra gli altri, oltre a dividere una canzone con Luigi Grechi. Questo racconta
molto della storia a cui potremmo iscrivere la poetica di Tiziano Mazzoni, quel
nobile lignaggio che finisce per scomodare Fabrizio De Andrè (a cui Mazzoni ha
dedicato anni fa il progetto Shiloq) e Francesco de Gregori, ma non basta ad imprigionare
una personalità matura come quella che scaturisce dal qui presente Ferro
e carbone, lavoro che si avvale tra gli altri delle partecipazioni di
Riccardo Tesi all'organetto e Pippo Guarnera all'hammond. Sarà che Mazzoni non
ha debuttato giovanissimo, e che alle sue spalle c'è una lunga educazione fatta
di blues e suoni americani, ma la qualità di ogni passaggio che traspare da questo
disco conferma un autore sicuro dei propri mezzi, semplice e cristallino nell'eposizione,
senza mai cercare soluzioni ad effetto e presunte nuove vie di espressione. Una
canzone folk rock artigianale e ben calibrata dunque, che guarda con naturalezza
al sound delle radici americane ma lo traduce e intreccia con la propria terra,
portando Dylan in Toscana con l'iniziale Sciogli il cane, certe dolcezze
country rurali nella storia di guerra evocata in Le lucciole e il bambino,
o ancora la luminosità del soul nelle melodie della ballata Qualunque nome
dirai (una vaga ispirazione da People Get ready di Curtis Mayfield?) e della
più vivace Silvano Fedi, dedicata alla figura di un partigiano pistoiese.
Le storie, come si sarà intuito, possiedono quel passo e quella capacità che muovono
dal particolare verso l'universale, quell'idea di ricercare nelle memorie della
proria gente e della terra natale una manciata di racconti da mettere in musica,
come avviene in Rita e l'angelo e nella cadenzata ballad elettrica Piombino,
fotografia di una classe operaia al crepuscolo, prima di affrontare inevitabilmente
anche l'attualità sociale, cosa che avviene con delicatezza in Quattro barche,
storia di immigrazione e di tragedie in mare al passo di un country soul. Ancora
una prova di esperienza ed equilibrio per un musicista fuori dagli schematismi
anche di certo presunto "indie d'autore" oggi così in voga.
Luca
Rovini Figure
senza età [Luca
Rovini/ IRD 2017]
Figure senza età canta
Luca Rovini, canzoni che appartengono al tempo, dice lui, che può essere
tanto il nostro quanto quello dei nostri padri, in generale potremmo dire di tutti
coloro che si sentono un po' fuori posto, outsider per vocazione come il cantautore
pisano, che usa parole spesso sincere e crude per cantare della vita, dei suoi
errori, di esperienze personali ma anche di ciò che lo circonda, della condizione
di chi è costretto a resistere. Non è difficile seguire il filo rosso che collega
il suono e lo stile di questo quarto lavoro di Luca Rovini con una precisa tradizione
d'autore italiana, quella che ha spesso guardato all'America e ai suoi vagabondi
del folk - viene in mente Luigi Grechi fra tutti - a un immaginario che poteva
essere fatto proprio e tradotto con la sensibilità di chi da quelle terre è sempre
stato attratto, eppure restandone lontano. Ci prova da diversi anni Rovini, con
dischi autoprodotti e dal piglio a volte naif, ma molto diretto, come il tono
a tratti secco e poco avvezzo alle buone maniere della sua voce. Ci pare di trovare
in questo Figure senza età un generoso passo in avanti, uno stile
più misurato ed efficace, di cui si giovano in generale le composizioni. Il vestito
è in gran parte acustico, scarno, ma non disdegna sezione ritmica e cuore rock,
come possono testimoniare un brano riuscito e incalzante quale Vite di contrabbando
e la più aspra Boogie finchè mi va. Prevale tuttavia la forma della
ballata, dal brusco andamento country blues e naturalmente adagiata sulle tonalità
folkie dei troubadour americani di cui sopra, da John Prine a Tom Russell passando
per un'infinità di texani. Lì dove le chitarre dello stesso Rovini e dell'ottimo
Stefano Cudia si stagliano cristalline troviamo uno dei punti di forza del disco,
anche quando le melodie zoppicano un po', e nondimeno si aprono improvissamente
ad orizzonti trasparenti, come accade in Companeros, tra gli episodi migliori
dell'album, con la tromba di Mike Perillo e la pedal steel di Paolo Ercoli, o
ancora nei profumi texani che emana la title track e nell'agrodolce suono acustico
che avvolge Tutto quel che resta e Fino al mattino. Non c'è artificio
nelle canzoni di Luca Rovini e anche nell'imprecisione e nell'arruffata poetica
che esprimono si ha l'impressione di rinvenire un gusto innato per la verità:
a chi non dovesse ancora esserne convinto, vengono in soccorso la bella (e non
facile) traduzione in italiano di Desperados Waiting for a Train, classico dell'outlaw
country anni settanta di Guy Clark che qui diventa Disperati in cerca di una
via, e la dedica non comune di L'ultimo Hobo allo scomparso Carlo Carlini
(figura centrale nella diffusione di certo cantautorato americano in Italia).