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Enrico Cipollini è il “cowboy” di casa
nostra che preferisco. RootsHighway ha già avuto modo di occuparsi a
più riprese della sua carriera, prima come membro degli Underground
Railorad (2015) e successivamente in qualità di songwriter nel suo ottimo
album d’esordio Stubborn
Will (2017). Se il passaggio in questione comportò una
svolta intimista ed acustica - che ricordava il mood di album come Nebraska,
o The Ghost Of Tom Joad, di Springsteen - rispetto al sound più
rock della sua vecchia band, oggi questo nuovo Crossing,
pur continuando nel solco del suo primo ultimo album solista, acquisisce
una dimensione nettamente più corale, grazie a vecchi e nuovi compagni
di viaggio. Sotto la suggestiva sigla Skyhorses, accompagnano
Cipollini in questo nuovo viaggio: Iarin Munari alla batteria, Roberto
Catani al basso e in ultimo Fabio Cremonini al violino, che molto spesso
lo affianca nei suoi concerti in giro per l’Italia.
Questo disco, come hai sottolineato, ha un coinvolgimento decisamente maggiore della band rispetto a Stubborn Will. Non è stata una scelta fatta a priori, si è trattato invece di un'evoluzione molto naturale. Quando ho completato i demo con una prima idea di arrangiamento ho contattato Iarin Munari (batteria) Roberto Catani (basso) e Fabio Cremonini (violino) per cominciare a dare forma ai brani. Dal vivo suonavamo già insieme e sia Iarin che Roberto avevano lavorato al disco precedente. Oltre che amici sono musicisti con un talento incredibile e fra noi quattro si è creata un'alchimia veramente speciale in studio. La scelta poi di registrare "live" ha evidenziato ancora di più questo aspetto e Angelo Paracchini (il tecnico che ci ha registrato) ha fatto un splendido lavoro nel catturare il "momento". Credo che durante queste sessioni di registrazione siamo diventati definitivamente una band, consolidando il nostro sound. E' una cosa che ho avvertito chiaramente. Per questo mi è sembrato naturale che il disco uscisse anche a nome degli Skyhorses. Inoltre ho avuto la fortuna di avere degli ospiti eccezionali che hanno dato un contributo speciale ad alcuni brani: sono Fabrizio Luca (percussioni), la cantautrice Joanna Marie (voce), Annalisa Vassali (voce), Nick Muneratti (basso), Andrea Franchi (violoncello). E' stata veramente una gioia collaborare con tutti questi musicisti. Titolo e copertina: emergono elementi della natura, richiami al blues, alle cosiddette radici. Cosa ti affascina e ti ha condotto verso queste sonorità? Quanto senti vicino e affine quel mondo americano con i luoghi in cui sei cresciuto? Il titolo l'ho scelto in realtà perchè rappresentava in maniera sintetica e semplice l'idea di un attraversamento, un momento di passaggio che stavo e che sto vivendo, quindi diciamo che è inteso più come verbo "to cross" che come sostantivo. Ma indubbiamente ha una doppia valenza che ricorda molto anche gli incroci, i famigerati crossroads del blues. Quello che mi ha da sempre affascinato della musica americana roots, e anche naturalmente del blues è l'apparente semplicità dietro la quale si nascondono un infinità di luoghi, emozioni, storie. C'è qualcosa che mi ha sempre colpito in quel mondo e da subito l'ho sentito mio profondamente. Diversi luoghi dove sono cresciuto o che ho visitato li ho spesso percepiti come molto vicini a quel mondo. Perchè è un pò come se la tua anima e sensibilità si sintonizzassero su una certa stazione e tutto quello che hai attorno improvvisamente prendesse un nuova vita, colorato e trasfigurato da una manciata di note e una storia. Non ho mai creduto che per fare blues o altri generi si debba essere di un particolare colore o di una particolare città. Credo che sia uno stato dell'anima più che biologico o geografico. Oltre alla chitarra, la presenza del dobro e della tecnica slide è centrale nello sviluppo musicale di Crossing: mi piacerebbe sapere qualcosa di più del tuo rapporto con questi strumenti e quali eventualmente sono state le tue fonti di ispirazione. Quali, se ci sono, i “maestri” che ti hanno fatto innamorare del suono di questi strumenti? Il dobro (squareneck - quindi suonato slide come una lap steel) ha davvero avuto una grandissima influenza su diversi aspetti della mia musica. Sto imparando a suonarlo come autodidatta trasferendo su questo strumento alcune tecniche che utilizzo sulla chitarra acustica come il fingerpicking, travis picking etc.. quindi diciamo che ho un approccio non proprio tradizionale. Quello che mi ha attirato fin da subito, oltre ovviamente al suono, è stata l'idea di provare a scrivere delle canzoni che potessero "stare in piedi" da sole con dobro e voce. Gli accordi che si possono suonare sul dobro senza avere un basso o un altro strumento di accompagnamento sono molto limitati rispetto alla chitarra e questo mi ha portato ad esplorare nuove soluzioni anche a livello di scrittura. E' un percorso molto interessante. Paradossalmente mi sono innamorato di questo strumento e del suo suono unico prima di conoscere quali fossero i maestri di riferimento! Naturalmente scoprire poi musicisti come Jerry Douglas, Rob Ickes, Mike Auldrige mi ha ispirato ad approfondire ancora di più lo studio di questo strumento. Lo adoro! Nel finale c’è un trittico di brani, davvero notevoli, registrati in solitaria, dove ti cimenti anche al piano e alla steel guitar. Mi pare che emerga l’aspetto più intimo e cantautorale della tua scrittura. Come sono nate queste canzoni, fanno tutte parte di uno stesso periodo compositivo? Lo chiedo perché mi pare di avere individuato un approccio più narrativo all’inizio dell’album e con il procedere del disco sempre più personale... Forse autobiografico? Non avevo notato questo aspetto! Ma devo dire che hai ragione, nello sviluppo dei testi effettivamente c'è questo percorso più narrativo all'inizio che verso la fine diventa più introspettivo. Gli ultimi tre brani sono indubbiamente quelli più intimi del disco isieme a What's Left to Do. Non fanno parte dello stesso periodo compositivo ma sono sicuramente accomunati da un tipo di scrittura più riflessiva e anche autobiografica. Senza volerlo salto spesso da un tipo di scrittura all'altra, così come dai brani più arrangiati ed energici a quelli più scarni ed intimi. Non riesco e non voglio fossilizzarmi su una sola tipologia, così come in un solo genere. Mi sembra che Crossing da questo punto di vista rappresenti al meglio dove mi trovo ora musicalmente, domani poi si vedrà. Hai avuto qualche esperienza live all’estero, soprattutto a Londra, e spesso anche l’occasione di suonare insieme a numerosi musicisti americani qui in Italia: quali insegnamenti ti porti dietro, o se vuoi quali segreti e piccole rivelazioni ne hai ottenuto? La cosa che mi ha fatto sentire in sintonia con diversi musicisti americani e londinesi che ho conosciuto è principalmente l'umiltà nell'approccio, sia con gli addetti ai lavori che con il pubblico. Molte volte i più bravi non se la "tirano" affatto. Quando hai la possibilità di confrontarti da vicino con questi musicisti e tieni occhi e orecchie ben aperte c'è sempre molto da imparare. Uno degli insegnamenti più grandi che mi porto dietro specialmente dai musicisti americani è la professionalità e l'approccio al concerto. Dal vivo sono spesso dei performer veramente eccezionali e questo è sempre un grandissimo stimolo per cercare di migliorarmi.
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