Potremmo partire dalla fine, dalle parole di I
Can’t Tell Ya, che sono impresse lì, schiette e senza possibilità
di fraintendimenti: I beat the beast/ I laid him down into the ground.
Voce e chitarra acustica sono di Edward Abbiati, l’armonica dell’ospite
Jimmy Ragazzon (Mandolin Brothers), non serve altro per arrivare dritti
alla confessione. C’è stato un prezzo da pagare, ma la rinascita, la
luce, si sono fatte largo, dopo alti e bassi, dopo che la vita ha riservato
qualche sonoro schiaffo, di quelli che ti inchiodano al muro, per tanti
motivi, e magari si trascinano appresso altri pensieri, fallimenti,
errori, anche se non direttamente collegati alla malattia.
È da un percorso di dolore personale, come spesso capita, che nasce
l’ispirazione artistica di Beat the Night, bel titolo
che racconta attraverso dieci ballate di impianto in prevalenza acustico
la battaglia di Abbiati, quella che per un momento ha fatto vacillare
le certezze, forse il suo stessoamore per il rock’n’roll, espresso nell’avventura
dei Lowlands prima e in quella feroce del progetto The
ACC poi. Beat the Night è gioco forza l’album più privato
e senza filtri della sua produzione, lì dove l’autore si mette a nudo
nella sua fragilità e negli affetti, scegliendo un tono accorato anche
per la musica. La direzione è all’opposto di Beautiful,
at Night, nessun stridore elettrico, niente febbre rock,
semmai un languore elettro-acustico nel quale avvolgere i propri pensieri,
che aprono sulle note brillanti del folk rock della stessa Beat
the Night e si accomodano tra sprazzi di nuda verità, senza
mai arrendersi alla sconfitta.
Capita con l’ammissione di I Got Hurt
e la sincerità di Look at Me, volgendo poi lo sguardo all’amore
di un abbraccio, di un ricordo famigliare con Hold me Tight e
In Harm’s Way. Il suono è agrodolce, un po’ crepuscolare, tinteggiato
di quelle cadenze alternative country che rimandano ai Richmond Fontaine
di Willy Vlautin (chissà perché ogni volta la voce “spezzata” di Edward
Abbiati me lo ricorda da vicino...) o al Jay Farrar (Son Volt) più intimo.
È quello che ti aspetteresti da una tale confessione: con i bellissimi
interventi della lap steel di Mike 'Slo Mo' Brenner (Marah), il violoncello
di Simona Colonna ad aumentare il pathos, la punteggiatura aggiunta
di Maurizio Gnola alla chitarra (con Abbiati firmano insieme Judgment
Day #2), e molti di quei musicisti che in qualche modo hanno incrociato
la loro strade con Edward in questi anni, Beat The Night appare
come un disco semplice nella struttura, ma niente affatto "trasandato".
È nell’intensità di quello che dice e di come lo dice che lo si può
apprezzare a fondo: possiede persino un cuore rock (l’ironia che attraversa
45, per esempio, che scalpita pur
non servendosi di una batteria), senza darlo a vedere con effetti plateali,
preferisce il faccia a faccia con le emozioni, parla candidamente di
figli e amore (Three Times Lucky, Sleepwalking), quelle
certezze che ti servono per restare in piedi quando attraversi il buio,
dimostrando ancora una volta che la musica alla fine è la cura.