Proprio
quando eravamo pronti a dare per definitivamente chiusa la loro
avventura i Blue Rodeo hanno recuperato lo spirito dei vecchi
tempi, cosegnando in questi mesi il doppio The
Things We Left Behind, forse il disco più ispirato
da molti a anni a questa parte. Ripercorriamo la sga di questo
angolo canadese del migliore suono Americana.
A
cura di Nicola Gervasini
::
Il ritratto
Mentre guido verso i tuoi cancelli perlacei ho capito che non sarei mai potuta
restarci tra tutte quelle montagne che ti tengono chiusa dentro e nascondono la
verità ai miei occhi. Sono venuta da te con il mio cuore aperto a metà, i sogni
sulle spalle e con l'illusione di un nuovo inizio. Posso sopportare questo peso,
Nashville? Mi darai anche solo mezza occasione con il tuo stile del sud e la tua
danza nascosta? (Indigo Girls - Nashville, da Rites Of Passage, 1992)
I Blue Rodeo
sono la band canadese per eccellenza. No, no...non storcete il
naso! Non abbiamo detto "la migliore band canadese di sempre":
finché un'apocalisse non farà sparire dalla terra l'opera omnia
della Band di Robbie Robertson e Levon Helm, quel titolo sarà
tabù per tutti. E' ovvio... E lo stesso si potrebbe dire anche
di altre band canadesi ancora sulla breccia, come ad esempio dei
contemporanei Cowboy Junkies, visto che del loro The Trinity Session
non ci si dimentica mai quando si stila una lista dei dischi fondamentali
nel propagare i suoni della musica americana. Ma i Blue Rodeo
(che della Band sono da sempre considerati i veri eredi) sono
rimasti "cosa loro", dei canadesi, tanto che al di fuori del Nord
America se li dimenticano sempre un po' tutti quando c'è da stilare
liste e trovare predecessori stilistici, spesso confusi nel calderone
delle band alt-country di inizio anni 90. Parliamo dunque del
fatto che se fate un viaggio a Toronto e chiedete al fantomatico
"uomo della strada" quale sia il gruppo più rappresentativo del
luogo, l'unica alternativa a loro è che vi rispondano i Tragically
Hip, probabilmente il loro corrispettivo più rock e più alternativo
(gente che cantava invettive contro la country-music americana
più conservatrice come It Can't Be Nashville Every Night
appunto). Parliamo di una band che ancora oggi va nella Billboard
canadese con invidiabile regolarità, ma che persino le riviste
più specializzate statunitensi ed europee spesso si scordano anche
solo di recensire. Eppure se oggi decidiamo di spendere per loro
addirittura una monografia, è perché con il senno di poi ci si
è resi conto che sarebbe giusto dare a questa band il merito di
aver anticipato i tempi della cosiddetta "Americana", un termine
non era ancora stato inventato quando loro già l'avevano "scoperto"
(il suo utilizzo a livello popolare, col senso da noi spesso usato,
risale agli anni '90 inoltrati).
Ancora oggi attivi
fin dal 1985, la formazione dei Blue Rodeo è stata oggetto di continui cambi di
line-up che hanno visto ruotare molti musicisti attorno alle due figure più importanti,
Jim Cuddy e Greg Keelor. Entrambi voce, penna e chitarra del gruppo
(con perfetta alternanza di leadership), i due hanno tirato fin dall'inizio le
fila artistiche del combo, con un'intesa ed un'armonia che ha creato una produzione
sempre costante e di ottimo livello. Come le grandi coppie rock di un tempo insomma,
anche se la "storia del rock" ha insegnato che spesso grandi capolavori come Beggars
Banquet dei Rolling Stones nacquero proprio perché l'egemonia creativa del duo
Jagger-Richards veniva minata e messa in discussione dal Brian Jones di turno.
E, nel caso dei Blue Rodeo, il terzo incomodo e l'anima artistica di difficile
gestibilità trova la sua incarnazione nella controversa figura di Bob Wiseman.
La storia vuole che Cuddy e Keelor, compagni di scuola di Toronto, giungessero
a New York in cerca di fortuna e dell'ambiente giusto per formare una nuova band,
dopo che in patria avevano già pubblicato qualche 45 giri proto-punk con gli HI-FI's.
L'incontro con il concittadino Wiseman, pianista con inclinazione jazz e un'insana
passione per Thelonious Monk, avviene nei locali della città, quando i due hanno
già creato i Blue Rodeo con il bassista Bazil Donovan (l'unico altro membro
che non uscirà mai dalla formazione) e il batterista Cleave Anderson. Con questo
schieramento il quintetto si fa notare a Toronto come una delle migliori live-band,
dediti ad un roots-rock con ascendenze country e folk, ma spesso anche melodiche
e pop, che porterà la Risque Disque (ausiliaria canadese dell'Atlantic) a metterli
sotto contratto e lanciarli sul mercato.
La prima parte della storia
dei Blue Rodeo (1985-1992) si consuma con quattro dischi prodotti e lanciati sul
mercato con tutti i crismi dell'epoca, compresi quindi anche seducenti video per
MTV e produttori di primo grido, ma con vendite stratosferiche raggiunte solo
in Canada e non negli Stati Uniti, dove il loro nome faticherà fin da subito a
consolidarsi. E' il periodo migliore del gruppo, forti di una formula da più parti
descritta come la mai vista session tra Gram Parsons e la Band, grazie all'unione
di tristi e romantiche ballate degne della migliore Nashville con formule musicali
molto elaborate, anche (e soprattutto) grazie all'apporto del geniale Bob Wiseman.
Ma nel 1992, all'indomani del loro capolavoro Lost Together, gli
attriti umani e artistici tra il duo Cuddy/Keelor e Wiseman si chiudono con l'abbandono
di quest'ultimo, reo di aver intrapreso una carriera solista nel 1988 con un disco
troppo acclamato dalla critica per non suscitare le gelosie dei compagni (il bellissimo
e allucinato In Her Dream: Bob Wiseman Sings Wrench Tuttle). Anche qui la "storia
del rock" si ripete, e più che di Brian Jones, stavolta Wiseman veste i panni
del David Crosby che Roger McGuinn allontanò dai Byrds a causa delle sue insistenze
sul voler affrontare temi politici e sociali nei brani. Gli intenti dei Blue Rodeo
superstiti erano invece ben diversi, con i due leader sempre più intenzionati
a sviare i propri testi su temi sentimentali e intimistici. Il resto dell'epopea
non ha però tenuto il passo degli esordi, e dopo alcune produzioni non all'altezza
del loro buon nome, i Blue Rodeo si sono rinchiusi nella loro Toronto, dove continuano
ancora oggi a pubblicare dischi e ottenere consensi locali ormai lontano dai canali
media mondiali Sempre sognando Nashville, ma da lontano. A poco è valso anche
il tentativo di ricreare la salutare frizione umana avuta con Wiseman nella figura
di Bob Egan, l'ex Freakwater rubato nel 2000 nientemeno che da quella fabbrica
delle grandi idee che sono stati i Wilco di Being There. Il massimo risultato
raggiunto è stato ritornare alla buona routine offerta dalle ultime tre prove
in studio, proprio come è successo a tutti i grandi gruppi di questa fantomatica,
vecchia e abusata "storia del rock".
:: Il capolavoro
Lost Together
[Risque Disque/ Discovery, 1992]
1.
Fools Like You // 2. Rain Down On Me // 3. Restless // 4. Western Skies // 5.
The Big Push // 6. Willin' Fool // 7. Already Gone // 8. Flying // 9. Lost Together
// 10. Where Are You Now // 11. Last to Know // 12. Is it You // 13. Angels
In contemporanea
con l'uscita di Casino del 1990, il marketing della WEA americana, nel disperato
tentativo di lanciare il gruppo anche negli Stati Uniti, riuscì a far apparire
i Blue Rodeo come backing-band di Meryl Streep nell'ultima lunga scena
del film Cartoline dall'Inferno di Mike Nichols. La telecamera di Nichols indugiò
su una performance della popolare attrice in puro stile honky-tonk, ignorando
il più possibile gli immobili e poco fotogenici membri della band, eccezion fatta
per le ultime immagini durante i titoli di coda, dedicate ad un indiavolato Bob
Wiseman che danza a piedi nudi con la fisarmonica, come preso da chissà quale
raptus dionisiaco. Fu quella la migliore rappresentazione di una spaccatura di
animi e d'intenti che fortunatamente avverrà solo dopo il successivo disco, il
migliore. Lost Together ironizzava fin dal titolo sulla sconfitta
dei loro sogni di gloria in terra americana, con conseguente ritorno in patria
sotto l'ala dell'Atlantic canadese. Timorosi di incappare in un altro produttore
lontano dal loro spirito, i Blue Rodeo (che qui trovano in Glenn Milchem il loro
definitivo batterista) pretesero di auto-produrre il disco, facendosi aiutare
solo da Peter Doell, il vecchio ingegnere del suono di Miles Davis e Frank Sinatra.
Nonostante si tratti di un album eccessivamente lungo (65 minuti, ma era l'usanza
del periodo in cui esplodeva il formato CD), Lost Together trovò il perfetto dosaggio
tra le tastiere di Wiseman e le chitarre dei due leader, compreso anche il giusto
amalgama tra testi impegnati (Fools Like You
rivendica ad esempio il rispetto per i Native Americans) e confessioni intime.
Lo stile delle canzoni raggiunge qui una la giusta misura, né troppo country né
troppo rock, melodico ed accattivante, ma mai furbo e sornione, uno di quei miracoli
estetici che solo ai grandi artisti capita più di una volta nella vita. Lamenti
d'amore (Already Gone è il più classico dei
racconti del "the day after" di una rottura sentimentale), ma anche lunghe schitarrate
(l'esaltante Willin'Fool), e in sintesi tanto
di quel cosiddetto alt-country che sarà nelle radio americane da lì a poco (Rain
Down On Me, Western Skies, …).
Se i loro detrattori li hanno sempre accusati dell'eccessiva soporiferità di molte
loro composizioni (infausto destino condiviso equamente con i Cowboy Junkies in
questo caso), Lost Together era la risposta giusta da dare, grazie alla coralità
decisamente (e positivamente) radiofonica della title-track, il giusto gran ritmo
trovato nelle puntate rock di Restless e
ballate mai troppo autocompatenti (Angels,
Last To Know). Resta però un classico mancato,
o semplicemente uno di quei album che bisogna sempre "riscoprire", e questo solo
a causa dei meccanismi perversi di un'industria discografica ai tempi ancora imperante,
e che non rimpiangeremo mai proprio per questo.
::
Dischi essenziali
Outskirts [Risque Disque/ Discovery, 1987]
Quando
registrarono il primo disco, Jim Cuddy e Greg Keelor erano entrambi già oltre
i trent'anni di età, e le corde delle loro chitarre avevano già preso la polvere
di più di dieci anni di vita on the road. Non ci si sorprende dunque se Outskirts
appare ancora oggi come il disco di una band matura e già ben rodata. Quello che
però impedì al disco di decollare non furono le dieci ottime canzoni che i due
approntarono per l'occasione, quanto la produzione decisamente anni '80 di Terry
Brown, sorta di Re Mida dell'FM canadese grazie al suo lavoro con i Rush (tutte
sue le produzioni del periodo 1976-1982), ma anche fresco del successo planetario
di (I Just) Died In Your Arms dei Cutting Crew (non vi angosciate se non
la ricordate, varrebbe la pena dimenticarla). Insomma un uomo nato tra suoni enfatici
e melodie rimarcate, esattamente quello di cui non avevano bisogno i Blue Rodeo
per lanciare il loro credo musicale, ma anche un vecchio volpone da sala di registrazione
che conosce tutte le nuove tendenze e trasforma Bob Wiseman in un perfetto organista
da garage-band anni 60 (anche se lui troverà modo di sfogare la sua formazione
da pianista jazz nella lunga Piranha Pool).
Il suono dell'album potrebbe essere considerato un omaggio in salsa radiofonica
al Paisley Underground degli anni 80, se è vero che le chitarre di Heart
Like Mine cercano le acidità del revival del West-Coast sound e Rose-Coloured
Glasses sfoggia 12 corde byrdsiane e un tema rubato a My Back Pages
di Dylan senza alcuna remora di plagio. La classica dolce ballata "alla Blue Rodeo"
fa capolino in una Rebel che celebra i vecchi
amici della loro era punk, e nell'agrodolce Try,
che, forte di un video patinato, resterà il loro singolo più noto al grande pubblico.
Outskirts resta un fresco quanto irrisolto esordio, con qualche brano minore di
troppo (il rock stradaiolo alla Del Lords di Joker's
Wild non è nelle loro corde) e qualche altro da riscoprire (Floating
ad esempio). Per iniziare bastava anche così.
Diamond Mine [Risque Disque/ Discovery,
1989]
Quando
nel 1992 i Jayhawks ribaltarono in chiave più melodica la recente rivoluzione
(o forse sarebbe meglio dire "involuzione") innescata dagli Uncle Tupelo, qualcuno
si ricordò improvvisamente di questo disco, vero e proprio faro per l'improvvisa
maturazione di Olson e Louris. In cabina di regia stavolta sale un giovane e ancora
poco affermato Malcolm Burn, tastierista di fiducia di Daniel Lanois, che
porta in dote il nuovo roots-sound vibrato e pieno di effetti professato dal maestro.
Dall'altra parte c'è una band che trova qui la perfezione nel dosare i sempre
più evidenti debiti con il songwriting di Gram Parsons con lo scalpitante sperimentalismo
delle tastiere di Wiseman (evidente nei lunghi momenti quasi progressive della
title-track), che per l'occasione confeziona alcuni piccoli strumentali piazzati
tra un brano e l'altro. Sono qui presenti alcune delle migliori canzoni del loro
songbook, come la dylaniana God And Country
("Dio e Patria, tu la chiami Giustizia, io la chiamo servizio a se stessi", frasi
polemiche e di contestazione che spariranno presto dalla loro penna) e il singolo
How Long. La vena romantica della band resta
preponderante in Now And Forever, Girl
Of Mine e Love And Understanding,
brani che Burn commentò con gusto, portando il sound della band su volumi più
bassi, e inserendo fisarmoniche e strumentazioni country-oriented. Bisogna aspettare
almeno quaranta minuti prima che il ritmo si faccia più sostenuto in One
Day (con tanto di chitarre rockabilly), Florida
(momento rock più vicino al primo disco) e l'oscura Fuse
(dove affiora il suono del Malcolm Burn che sarà). Diamond Mine
vendette anche più del predecessore in patria, ma continuò a rimanere un oggetto
oscuro nel resto del mondo. Uscire troppo presto fu il primo grande difetto, non
averlo fatto in terra statunitense quello decisivo per non poter partecipare da
protagonista alla "storia del rock".
Casino [Risque Disque/ East-West-WEA, 1990]
Nel
1990 la musica stava cominciando a cambiare anche nelle charts americane, e così
una major come la WEA pensò bene di dare una chance a questi placidi canadesi
così osannati in patria. Casino è il primo (nonché ultimo) "disco
americano" dei Blue Rodeo, una vera e propria operazione commerciale che avrebbe
dovuto lanciarli definitivamente a livello mondiale. Il batterista Cleave Anderson
non ci credette fin da subito, e si rifiutò di fare il viaggio fino ad Hollywood
ritirandosi a vita privata (lo sostituì solo per quest'occasione il session-man
Mike French). Proprio nell'eden del cinema americano, nei giganteschi studi della
Capitol, la WEA fece registrare ai ragazzi questi dieci brani cercando di trasformarli
in una nuova country-pop band che sfruttasse la nuova rinascita economica di Nashville.
Visto che le canzoni di Cuddy e Keelor mal si adattavano a essere trasformate
in easy-pop rurali alla Garth Brooks, vennero affidati alle cure di Pete Anderson,
il produttore del nuovo country-outlaw Dwight Yoakam. Un fiero artigiano degli
studi di registrazione che lavorò molto sulla pulizia dei suoni e sulle melodie,
ma che non dovette poi faticare molto a far risaltare la bellezza di alcuni splendidi
momenti come What I Am Doing Here o Montreal.
Il richiamo alla nuova Nashville era evidente in Til
I Am Myself Again, singolo che volutamente richiamava un recente successo
di Rodney Crowell, o da momenti morbidi come Last Laugh.
Anderson comunque spronò la band ad uscire dal clichè della slow-ballad, cercando
di pompare il muro del suono laddove serviva (Two Tongues
e Trust Yourself hanno un energia insolita,
Time spara addirittura un micidiale riff alla
Replacements, You're Everywhere prova la
carta dell'honky tonk saltellante…). Casino resta un disco poco amato dai fans
per quel suo eccessivo formalismo, la scelta di brani ad effetto (la ballatona
After The Rain è proprio da accendino allo stadio…) e con testi poco
graffianti, oltre che una forzata normalizzazione dell'estro di Wiseman, che costituirà
la prima causa del suo distacco finale dal gruppo. Disco in verità ancora molto
godibile, seppur effettivamente troppo pensato e pre-confezionato, verrà comunque
giudicato un fallimento in termini di vendite, e risulterà essere uno dei "forati"
(vinili/cd deprezzati perché invenduti) più facilmente reperibili degli anni novanta.
Five Days in July [Warner Music Can./Discovery,
1993]
A
sorpresa il primo colpo senza Wiseman sembrò dar ragione ai due "despoti" Jim
e Greg, visto che nel 1993 Five Days In July ottenne consensi unanimi
e pure il loro record di vendite, risultato ancor più soddisfacente se si pensa
che gran parte degli applausi vennero riservati proprio al nuovo pianista James
Gray. L'avventura dei Blue Rodeo ripartì da Neil Young, alla cui arte dell'improvvisazione
e della perfetta espressione del dolore Fide Days In July è dichiaratamente ispirato.
Come usava fare il Neil nazionale, l'album venne registrato in presa diretta,
inizialmente con lo scopo di farne un demo da inviare alla nuova casa discografica
(la Warner Bros canadese) affinché si mettesse alla ricerca del produttore giusto,
mentre alla fine le undici canzoni che ne uscirono risultarono già praticamente
perfette e finite, con la sola necessità di aggiungere qualche sovra-registrazione
e di chiedere alla guest-star Sarah McLachlan di realizzare alcune parti vocali.
Quasi a dimostrare quanto poco anche loro credessero nel nuovo investimento, quelli
della Warner Music accettarono che il disco uscisse senza che un produttore riaggiustasse
alcuni passaggi ritenuti troppo grezzi per il target della band. Eppure qui il
valore aggiunto erano proprio l'assolo distorto che sfregiava l'emotivamente sfiancante
Five Days Of May, il senso d'immediatezza
e urgenza espressi da Hasn't Hit Me Yet, Bad
Timing, Cynthia e Head
Over Hills, ed in genere splendide sonorità che riuscivano a richiamare
il fruscio dell'ormai sepolto vinile, risultando comunque perfette. Particolare
inedito anche la presenza di una cover, e in questo caso la scelta di ripescare
Til I Gain Control Again di Rodney Crowell
sembrò quasi un tentativo di riconciliarsi con il loro fallito sogno nashvilliano.
Senza Wiseman a inasprire i toni, l'album virava decisamente verso le tinte tenui
di una serie di sofferte love-songs, con momenti anche intensi nei brani più lenti
ed evocativi come What Is This Love, oppure
come il finale a cappella di Tell Me Your Dream,
poesia unita ad una acustica Know Where You Go
che addirittura ricorda i Pink Floyd acustici di Meddle. Resta una generale sensazione
che la bellezza dei suoni riuscisse a nascondere una certa ripetitività di temi
e melodie, ma in ogni caso Five Days In July è una delle esperienze sonore più
belle degli anni 90, un disco dotato di una magia rara e probabilmente irripetibile.
::
Il resto
Nowhere To Here [Warner Music Can/ Discovery,
1995]
Tremolo [Warner Music Can/ Discovery, 1997]
Dopo
tanti complimenti ricevuti per Five Days In July, i Blue Rodeo buttarono tutto
all'aria con un'accoppiata di dischi non brutti, ma semplicemente sbagliati. Il
retroscena fu il passaggio alla Warner Bros, che provò a ricondurre la carriera
del gruppo dall'alto e per il secondo appuntamento (Nowhere To Here)
si inventò una svolta rock che probabilmente non capirono nè la band, nè John
Whynot, ingegnere del suono promosso a produttore per l'occasione. Whynot dimostrò
tutto il suo "non-savoir-faire" non riuscendo a trovare la giusta taratura tra
chitarre inutilmente (e tardivamente) "ingrungite" e canzoni senza i giusti attributi.
Sorpassare i sei minuti della narcotica Save Myself
è dura, ma se ci si riesce, il premio è comunque qualche buon momento (Better
Off As We Are era un singolo azzeccato, nonostante il riff un po' alla
Pearl Jam), misto alle soliti lungaggini (Sky,
Flaming Bed). Nowhere To Here venne trattato
forse fin troppo male dalla critica, che lo bocciò senza se e senza ma, quando
invece riascoltato oggi conserva numerose tracce della migliore arte dei Blue
Rodeo. Anche perché il successivo Tremolo, affidato sempre a John
Whynot, fece anche peggio, con il deleterio tentativo di ricreare la magia da
favola di Five Days in July, riuscendo solo a ricoglierne gli aspetti più zuccherosi
e tediosi. Il fatto che ci sia qualche buon brano (Moon
& Tree, I Could Never Be That Man)
non salva un disco lungo e pieno di brani da dimenticare dal diventare forse la
loro opera meno consigliabile.
The Days In Between [Warner Music Can./Universal,
2000]
Palace Of Gold [Warner Music, 2002]
I
"giorni in mezzo" della storia dei Blue Rodeo li vedono ormai fuori dal grande
giro e spettatori inerti dei grandi cambiamenti dell'industria discografica, non
più disposta a dare chance ad artisti senza le opportune garanzie di ritorni economici,
visto l'improvviso calo delle vendite dei cd e l'avvento dell'era internet. The Days In Between era un tipico disco alla Blue Rodeo, con l'unico
difetto di viaggiare un po' a tentoni nel buio di un'ispirazione sommaria (la
copertina sembrava quasi simboleggiarlo), e di non avere frecce importanti da
scagliare se non la patinata produzione di Trina Shoemaker (Sheryl Crow e Emmylou
Harris tra le sue clienti) e canzoni non più che piacevoli. Una normalità che
fece finire l'album direttamente nel dimenticatoio (il meno venduto della loro
saga), e che portò alla scelta di aggiungere il poliedrico Bob Egan dei
Wilco a ravvivare l'ambiente per il successivo Palace Of Gold. Che,
a dispetto delle pretese di rinnovamento e l'inserimento di una bella quanto improbabile
sezione fiati, risulterà essere un altro passo minore, con in più la responsabilità
di aver fallito la sperimentazione verso una nuova era artistica che di fatto
non era mai iniziata.
Are You Ready [Warner Music Can./Rounder,
2005]
Small Miracles [Warner Music Can./Telesoul,
2007]
Dopo
una salutare pausa di tre anni, con Are You Ready arrivarono un
singolo (Rena), che Cuddy dedicò alla moglie
dichiarando di averla scritta cercando di ricreare lo stile dei giorni in cui
la conobbe (epoca Casino…), e un brano (Beverly Street)
addirittura riesumato dalle outtakes di Diamond Mine. Insomma, arrivò la fine
dell'inutile pellegrinaggio alla ricerca di un nuovo suono e l'inevitabile rivolgimento
su se stessi. Ancora una volta si rispettano le regole non scritte della "storia
del rock" quelle che dicono che per non sembrare troppo vecchi per fare rock,
basta solo smetterla di tentare di sembrare giovani. Cuddy e Keelor hanno 50 anni
più che suonati quando ritrovano con Are You Ready, se non il genio, per lo meno
la buona mano nello scrivere belle canzoni e suonarle con tutta la loro migliore
capacità di emozionare. Era un disco che si guardava alle spalle senza più timore,
che recuperava la convinzione degli inizi senza più l'affanno di dover seguire
i tempi, insomma l'opera della raggiunta maturità. Due anni dopo gli fece eco
Small Miracles, persin meglio accolto dalla critica, ma in verità
leggermente penalizzato dal grave abbandono del pianista James Gray in favore
del nuovo Bob Packwood. In ogni caso un'altra opera regolare e quadrata nel raccontare
le nuove storie di due vecchi compagni di scuola che non si sono mai voluti arrendere
e che restano due inossidabili istituzioni della musica canadese
::
Riepilogo (discografia)
Nel
2001 Jim Cuddy scrisse nelle note di copertina all'unico Greatest Hits esistente
della band (un Volume 1 che non ha ancora conosciuto il secondo) che reputava
impossibile compilare un "meglio" della band, per cui la lista offerta prevedeva
meramente i 15 brani usciti come singolo, giusto per trovare un metodo di selezione.
Per questa ragione se volete farvi un'idea dei Blue Rodeo con un unico titolo
antologico, consigliamo di sviare le vostre attenzioni sul bellissimo e torrenziale
live Just Like A Vacation, che nonostante sia testimonianza di una
tournee a seguito del loro disco peggiore, coglie la band in un momento ispirato
dal punto di vista dei suoni e della coesione e vanta una scaletta più che esaustiva.
Buono, anche se "only for fans", il recente Blue Road.
Outskirts (Risque Disque/ Discovery,
1987 ) 7,5 Diamond Mine (Risque Disque/ Discovery,
1989 ) 8,5 Casino (Risque Disque/ East-West-WEA,
1990) 8 Lost Together (Risque Disque/Discovery,
1992) 9 Five Days in July (Warner Music Can./Discovery,
1993) 8,5 Nowhere to Here (Warner Music Can./Discovery,
1995) 7 Tremolo (Warner Music Can./Discovery,
1997) 5,5 Just Like a Vacation (Warner Music
Can./WEA Int., 1999) 8,5 The Days in Between (Warner Music
Can./Universal, 2000) 6 Palace of Gold (Warner Music, 2002)
6 Are You Ready (Warner Music Can./Rounder,
2005) 7 Small Miracles (Warner Music Can./Telesoul,
2007) 6,5 Blue Road (Warner Music Can/WEA Int.,
2008) 7 The Things We Left Behind (Warner Music
Can./Telesoul, 2009) 7,5
Chiudiamo con una piccola appendice su alcune
carriere soliste. Rimandiamo ad altra occasione una rivisitazione di quella di
Bob Wiseman, su cui bisognerebbe spendere ben più di due parole, e che per certi
versi appare troppo lontana dalla storia dei Blue Rodeo per suoni, intenti e ispirazione.
Poche invece (e generalmente poco avventurose nello stile) le sortite dei due
leader, incapaci di cambiare pelle anche al di fuori del gruppo. Tra tutti, il
più consigliato resta Light That Guides You Home di Jim Cuddy del
2006, che sfrutta la ritrovata vena d'autore del suo titolare. Val la pena ricordare
il bel disco pubblicato lo stesso anno dal nuovo membro e polistrumentista Bob
Egan (The Glorious Decline), che continua a guardare in area Wilco
come stile, nonostante sia stato concepito con la collaborazione dell'altro Blue
Rodeo Bazil Donovan. Di quest'ultimo si ricorda solo una singolare (quanto fine
a se stessa) uscita (Matinee), album in stile retro-country/hillbilly, con omaggi
ad Hank Williams e Jerry Lee Lewis.
Jim Cuddy
All in Time (WEA International, 1998) Light That Guides You Home (WEA International,2006)
Greg Keelor Gone (WEA, 1997) Seven Songs for Jim (Warner
Music, 2005) Aphrodite Rose WEA (Warner Music, 2006)
Bob Egan Bob Egan (Bog Egan, 1999) The Promise (Garcorps, 2002) The Glorious
Decline (Fontana/ Club de Musique, 2006)