Big
Star Keep an Eye on
the Sky
[Ardent/Rhino, Box 4cd 2009]
a
cura di Gianfranco Callieri
Nel booklet, bellissimo
e corposo, che correda Keep An Eye On The Sky, e che assieme
al suo strepitoso contenuto musicale lo rende il documento definitivo
circa le mai troppo celebrate gesta dei Big Star da Memphis,
ci sono un'accurata timeline discografica a cura di Alec Palao, un saggio
di Robert Gordon (denso e appassionante quanto un romanzo) e un articolone
dove Bob Mehr raccoglie le testimonianze di alcuni fans, concittadini
e seguaci illustri del gruppo. Tra questi Peter Holsapple, l'ex-compositore
e chitarrista dei dB's, una di quelle band che al lascito dei Big Star
debbono tutto, o quasi. "Mettevo alla prova le mie potenziali ragazze
tramite l'ascolto di Radio City", dice Holsapple. Aggiunge poi di essersi
sentito dire che i Big Star "assomigliavano agli America con troppe
frequenze alte" (sic!), e di aver quindi messo alla porta in tutta fretta
la responsabile di tale affermazione. Ha fatto bene. Perché i culti,
piccoli o grandi che siano, vanno pure accuditi, coccolati, rispettati.
Giovano al senso di appartenenza e aiutano a sconfiggere la solitudine.
E i Big Star rappresentano la quintessenza del concetto stesso di cult-band:
artefici di due dischi ufficiali ascoltati poco e male all'epoca ma,
come nel caso della "banana" dei Velvet Underground, causa primaria
di almeno un milione di carriere succesive; periodicamente ristampati
(con l'aggravante, in termini di fascino, di un album "maledetto" uscito
solo undici anni dopo l'effettivo sciglimento del gruppo) e periodicamente
scivolati nel buio; composti, all'inizio, da una coppia di songwriters
l'uno baciato dal successo nemmeno maggiorenne, e in seguito destinato
a un percorso nomade tra etichette europee, lavori cestinati all'ultimo
secondo e tributi esoterici, l'altro baciato da smisurati sogni di gloria
e bruciato da una morte prematura; unici nel loro periodo e - ovvio
- troppo avanti rispetto ad esso.
"A metà degli anni '70, gli unici a conoscere i Big Star erano i critici
e i commessi dei negozi di dischi", spiega Peter Buck dei R.E.M. "La
band rimaneva un mistero. Oggi puoi prendere un computer e cercarli
su Google, ma allora c'erano soltanto gli album. Nessuno che conoscessi
li aveva mai visti dal vivo. Fu probabilmente il primo gruppo a incarnare
l'idea del beautiful loser. Prima di loro, i Velvet avevano realizzato
quattro dischi e avevano girato in lungo e in largo per tutta l'America.
I dischi degli Stooges, nei negozi, si trovavano: non erano popolari,
ma disponibili sì. I Big Star ti spingevano a chiederti se la loro carriera
fosse effettivamente reale. Sembrava una di quelle strampalate mitologie
all'americana: questi tizi che avevano realizzato lavori eccelsi, erano
stati ignorati e quindi erano spariti". Keep An Eye On The Sky,
per tutti, credenti e non, rappresenta da oggi il paramento necessario
per entrare a far parte della chiesa Big Star e professarsi ministri
del culto. E' un oggetto di culto in sé, un fascio di luce proiettato
sopra un grappolo di buio affinché nessuno possa dire "io non c'ero!"
o "io non sapevo!" riguardo un'avventura che il tempo, Lemonheads, Counting
Crows, Bangles, Walkabouts, Nada Surf, This Mortal Coil, Teenage Fanclub,
Replacements, Placebo, Eliott Smith, Wilco, Primal Scream, Whiskeytown,
Afghan Whigs, Kelly Willis, Garbage e dEUS (giusto per limitarsi ai
più famosi tra i "copertori" del gruppo) ha già canonizzato da un pezzo.
Keep An Eye On The Sky, insomma, gira intorno al "culto" dei Big Star
e non all'intero arco della loro carriera, poiché le propaggini degli
anni '90, dalla reunion live del 1993 (Columbia: Live At Missouri University
4/25/93) all'album nuovo di zecca di dodici anni dopo (In
Space), vengono saggiamente ignorate, primo perché non valevano
granché e secondo perché la cristallina eloquenza del mito non ammette
appendici.
Scrive Ann Beattie, nella nuova prefazione a Gelide scene d'inverno
(l'ha ristampato da poco Minimum Fax, e se non l'avete mai letto fatelo
ora: è uno dei più bei romanzi americani degli ultimi quarant'anni):
"Stavo facendo il dottorato perché non avevo voglia di trovarmi un lavoro,
e perché mi piaceva leggere e mi piaceva stare con i miei amici, che
erano ancora tutti all'università - anche per sfuggire alla leva e alla
guerra del Vietnam." Una frase che riassume tutte la radici del fascino
dei Big Star e delle loro canzoni, in cui si ritrovano, mescolati e
rimodellati entro un nuovo linguaggio, dove Beatles e Kinks si fondono
col soul del sud degli Stati Uniti e il Merseybeat sgrana inedite influenze
country-rock, romantiche fantasticherie da adolescenti e piccole emarginazioni
provinciali, lo spettro incombente dell'età adulta e isolamenti fanciulleschi.
Più di una volta viene da chiedersi se gli autori di Thirteen
("Posso accompagnarti a casa dopo la scuola? / Possiamo incontrarci
alla piscina? / Forse venerdì riuscirò / A trovare i biglietti per il
ballo / E ti ci porterò") e Back Of A Car
("Seduti nel retro di una macchina / La musica è così forte che non
riesco a dire nulla / Penso a qualche discorso / Ma non mi vengono le
parole"), e di tutte le loro gemelle e trasognate rimuginazioni da teenagers,
siano gli stessi tizi dolenti e funerei che intonano Holocaust
("Tua madre è morta / Tu sei solo / Lei è nel suo letto / Tutti se vanno
/ Lasciandosi dietro dei caduti / Tutti se ne vanno / Il più lontano
possibile / Non gl'importa nulla / Sei un volto devastato / Sei una
bugia dagli occhi tristi / Sei un olocausto"). Ma lo stupore fa parte
dello spettacolo: ed è con solennità scespiriana che, dopo due album
- #1 Record (1972) e Radio City ('74) -
ricchi di promesse, melodie indimenticabili ed esuberanza giovanile,
i Big Star si chiudono a riccio nel grandioso tracollo di 3rd,
conosciuto anche come Sister Lovers, finito nel '75 e rimasto
in un cassetto fino alla metà del decennio successivo.
Lo spettacolo (nel senso
britannico di "play", ché qui siam di fronte a un rocambolesco susseguirsi
di contraddizioni, accidenti, fortuiti colpi di scena) aveva aperto
i battenti quattro anni prima a Memphis, allorché Alex Chilton,
messa una croce sull'esperienza blue-eyed soul dei Box Tops (per i quali
aveva scritto l'hit planetaria The Letter nel '67), e Chris Bell,
un anglofilo innamorato dei Fab Four momentaneamente intento a sbarcare
il lunario facendo il tecnico nei locali Ardent Studios, si erano incontrati
quasi per caso. Al primo era tornata la voglia di registrare qualcosa,
il secondo era amico di un bassista (Andy Hummel) e di un batterista
(Jody Stephens) coi quali aveva passato innumerevoli serate a provare
e riprovare brani di Yardbirds e Who. Nel 1972 la Ardent ha appena siglato
un contratto di distribuzione con la Stax per promuovere i prodotti
registrati nei propri studios. Il fondatore della label e dello studio,
John Fry, precoce genio dell'ingegneria applicata al suono, ha in simpatia
i ragazzi e gli offre un numero illimitato di ore d'incisione: i Big
Star, con la supervisione di Terry Manning, di Jim Dickinson e dello
stesso Fry, sono liberi di dilungarsi e sperimentare. #1 Record, in
pratica, inventa il power-pop americano spiattellando melodie beatlesiane
e harmony-vocals di fiabesca delicatezza su un tappeto formato da riff
assassini, grezze accordature rootsy, drumming iperbolico e scatti nervosi
di organo e fiati. Bell è responsabile del lato più soffice del gruppo,
quello più smaccatamente pop, Chilton provvede all'urgenza del rock'n'roll.
#1 Record, sebbene i pezzi risultino quasi tutti scritti a quattro mani,
appartiene soprattutto a Bell, che sa infondere la profondità oscura
del tormento soul alle sue eteree caramelle pop, mentre Chilton si limita
a rendere più pungenti gli spigoli r'n'r e a carburare il groove r&b
delle composizioni. Chilton, meglio abituato ai repentini movimenti
del consenso di pubblico, recepisce senza colpo ferire il flop commerciale
del disco, ma Bell, nonostante il plauso della critica, parte per la
tangente: complice un abuso di stupefacenti ormai fuori controllo, è
costretto a passare gran parte del 1973 in un centro di riabilitazione
psichiatrica. Partirà poi per l'Europa col fratello David, lì conoscerà
Paul McCartney e farà ritorno in Tennessee solo per gestire, fino al
'78 (quando morirà in un incidente stradale), la catena di fast-food
di famiglia. Non smetterà mai, tuttavia, di pensare alla propria musica
suonicchiando qui e lì, contattando colleghi per nuovi gruppi mai formati,
registrando in proprio: il succo dei suoi esperimenti solisti vede la
luce solo nel 1992, ma il disco che ne risulta - il meravigliosoI Am The Cosmos - vale in tutto e per tutto le pagine migliori
dei Big Star (difatti nel presente box ci sono pure diversi demos del
solo Bell).
Le redini dei Big Star, nel frattempo, sono saldamente in mano a Chilton,
e il Radio City che i tre superstiti pubblicano, nel disinteresse generale,
due anni dopo l'esordio, è un concentrato di energia, fragore metallico
e understatement produttivo (nel senso che la grinta dei pezzi è quella
di un fiammeggiante live in studio). Qualche apertura per grossi acts
e il solito apprezzamento della stampa specializzata non fanno primavera,
sicché il Chilton che entra di nuovo in studio, scoraggiato, disilluso
e abbandonato da un altro quarto del gruppo (Hummel va a prendersi un
master in business administration e finisce a lavorare tra gli ingegneri
aerospaziali della Lockheed Corporation), non riesce a cantare che oscuri,
velvettiani mantra di depressione. Le parole di Nightime ("Portatemi
via di qui / Odio questa situazione") risuonano come un epitaffio sulla
carrierra troppo breve di una band immensa. Le nuove incisioni, divise
tra rasoiate di feedback, dark-folk e archi classicheggianti, non hanno
nemmeno un nome: provvede a darglielo, senza troppa fantasia, la minuscola
PVC, che nel 1985 stampa quelle che reputa canzoni finite col titolo
di 3rd. Jody Stephens diventa lo studio manager di casa Ardent. Chilton
fa armi e bagagli, finisce nella spirale dell'alcolismo, produce i primi,
seminali Cramps (quelli di Gravest Hits ['79] e Songs The Lord Taught
Us ['80]), si trastulla con la sei corde di Richard Lloyd e s'inventa
un nuovo periplo da cult-hero tra country, swamp-blues caricaturale,
rockabilly, errebì e new-wave: molte delle sue cose soliste non sono
facilissime da digerire, ma perlomeno 1970 ('96), che include eterogenee
registrazioni pre-Big Star, lo scombinato Like Flies On Sherbert ('79),
album di cover inizialmente stampato in sole 500 copie che inventa il
lo-fi con tre lustri d'anticipo, e il punk'n'roll di One Day In New
York ('78), andrebbero riscoperti (su quanto licenziato dall'87 ad oggi,
invece, si può tranquillamente soprassedere).
Il resto della storia è recente e, come detto, interessa poco. Interessa
molto, invece, il fatto che Keep An Eye On The Sky sciorini
lo stato dell'arte sul confezionamento di un box-set: presenta in pratica
l'intera produzione di studio dei Big Star attraverso brani originali,
versioni alternative, demos, covers e inediti vari (coprendo così un
lasso di tempo che va dal '68 al '75), e la implementa con un disco
dal vivo (che suona da dio) registrato al Lafayette's Music Room di
Memphis in occasione di un opening per Archie Bell & The Drells (semmai
costui verrà insignito di un cofanetto retrospettivo, mi offro sin d'ora
di vergare gratis le liner-notes). Su un totale di 98 brani, 52 non
sono mai stati pubblicati prima d'ora. Così si fa. Si fanno sentire
Bell e Chilton lambiccarsi su piccoli esperimenti solisti (Psychedelic
Stuff, Gone With The Light
e Everyday As We Grow Closer) e
poi si squaderna una manna di alternate-tracks talvolta perfino più
belle delle versioni conosciute (è il caso di una Try
Again che sfodera heavy-soul allucinato o dello scorticato
rock'n'roll affiorante nel missaggio primigenio della classica In The
Street). Tutto Keep An Eye On The Sky è un gioco di specchi e rifrazioni
dov'è esaltante perdersi. La confessione folkie di The
India Song (qui cantata dal solo Hummel) interseca i rockacci
quasi zeppeliniani (degli Zep corretti Byrds) di
Feel e Don't Lie To Me che
confluiscono nel roots anthemico di The Ballad
Of El Goodo che rotola nel countreggiare soul di Country
Morn e Watch The Sunrise
che si esalta nella rilettura acustica di Motel
Blues (Loudon Wainwright III).
Nel secondo disco brilla il pop-rock in chiave garage di Radio
City, collocato accanto all'unico 45 realizzato in vita da
Chris Bell (col pop epico, dinamico, stratificato di I Am The Cosmos
e You And Your Sister), qualche scarno demo di ciò che finirà in 3rd
e un'esecuzione poliglotta della Femme Fatale
dei Velvet: un'apoteosi di ballate e pop rockeggiante che prefigura
l'intero tragitto artistico di Posies, Raspberries, Fountains Of Wayne
o Gin Blossoms, tutti compresi nel r'n'r schizzato di I
Got Kinda Lost e Back Of A Car,
nelle (nuove) percussioni latine di Way Out
West e nelle (inedite) tastiere alla Booker T. di O
My Soul, nel deragliare distorto dell'immortale September
Gurls. Il terzo cd allinea il disorientamento esistenziale
(e musicale, sebbene l'album sia in genere quello più amato dalla critica
meno incline alla classicità del rock) di 3rd con maggiore avarizia
di inediti, ma bastano le cadaveriche prove unplugged di Jesus
Christ, Downs, Holocaust
e Lovely Day a ipotizzare un'enciclopedia
di dischi consacrati al gotico e alle tenebre, le trascrizioni spettacolari
di Till The End Of The Day (Kinks)
e dello standard Nature Boy (col
fotografo William Eggleston al piano!) per resuscitarne il pallore.
Non ci sono infine parole per il travolgente live che chiude il cofanetto,
e che si sostanzia con una delle fotografia di Chilton che appaiono
nel booklet, dov'è ritratto con in mano Untitled dei Byrds. Un esplosivo
concentrato di roots-rock adrenalinico, tutto nervi e fibre scoperte,
indiavolato e scalmanato in She's A Mover, bluesy in Try Again, sconquassante
nell'intrecciarsi di assoli per chitarra e batteria di ST 100/6, imprevedibile
nelle covers (scontati i Kinks di Come On Now, ma i Flying Burrito Brothers
di Hot Burrito #2? il T. Rex di Baby Strange? lo scazzo pop-prog della
Slut di Todd Rundgren?). Ogni chiesa monoteista rischia i suoi dogmatismi,
lo sappiamo. Ma la consustanziazione che avviene in Keep An Eye
On The Sky è di quelle che non possono non far gridare al miracolo:
c'è tutto lo scalpitante entusiasmo di una band che si prepara a conquistare
il mondo, mischiando tutte le influenze di una giovinezza spesa ad appassionarsi
sui dischi altrui, e ci sono tutte le ombre del disastro che incombe,
tutta la pensosa oscurità dei fallimenti umani e creativi destinati
a contrassegnare gli anni a seguire. La particola che assomma i due
aspetti si chiama, da sempre, rock'n'roll e Keep An Eye On The Sky è
poco meno che un monumento a tutta la sua bellezza, tutti i suoi sogni,
tutti i suoi poetici furori. (Gianfranco Callieri)