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Hangin' down in Memphis "Children
by the million sing for Alex Chilton when he comes 'round // di
Marco Denti Ci vogliono sempre troppe parole per raccontare
un outsider e Holly George-Warren le ha usate tutte per dispiegare
la parabola impazzita di Alex Chilton. Giovanissimo, prima ancora che
riesca a rendersene conto, viene trascinato nel gorgo dell’industria
discografica che allora si reggeva (e si è retta a lungo) sulla connivenza
tra studi di registrazione ed etichette. È proprio lungo quel sottile
crinale che Alex Chilton si è mosso, non sempre a suo agio, come ammette
con un certo candore: “Credo che la mia vita sia stata solo una serie
di coincidenze nell’industria discografica. La prima cosa che ho fatto
è stato il disco più grande che avrei fatto”. A partire dai Box
Tops, soprattutto con The Letter, uno dei grandi hit del 1967,
poi con i Big Star e infine con una lunga e tortuosa carriera solista
(“La più strana carriera mai vista” ha scritto qualcuno), anche in veste
di produttore, Alex Chilton ha lasciato un marchio indelebile nella
storia del rock’n’roll più oscuro e marginale, che è poi l’unico che
conta.
Alex Chilton, una vita in una playlist Condensare una carriera - splendidamente confusa e vitale come quella di Chilton - in venti canzoni non è neppure immaginabile. Qui sono raccolte soltanto alcune tracce (con preferenze del tutto personali) a testimonianza di un percorso tortuoso, che ho immaginato di scompaginare cronologicamente, proprio per evidenziare la follia a volte geniale, a volte irritante di Alex Chilton. Invece di seguirne le gesta in ordine di apparizione, infatti, è provocatorio provare a mischiare la bellezza cristallina delle melodie dei Big Star con il blues "cubista" e il r&b dalla sfacciata attitudine garage che ha spesso sabotato il repertorio solista di Chilton (Like Flies on Sherbert, Bach's Bottom, High Priest, A Man Called Destruction, Feudalist Tarts alcuni degli album presi in considerazione). Così forse se ne comprende meglio l'intenzione e l'anima, sempre votata allo spirito iconoclasta del rock'n'roll e capace di influenzare generazioni distanti di musicisti. Solo brani originali firmati da Chilton, anche a più mani, e non quella grande cascata di cover che l'autore di Memphis ha spesso affrontato nei suoi dischi e per le quali mi rimetto alla vostra curiosità... se vorrete approfondire il suo repertorio (per fortuna tutto disponibile in streaming)
Big Star, "Keep an Eye on the Sky" Nel booklet, bellissimo e corposo, che correda Keep An Eye On The Sky, e che assieme al suo strepitoso contenuto musicale lo rende il documento definitivo circa le mai troppo celebrate gesta dei Big Star da Memphis, ci sono un'accurata timeline discografica a cura di Alec Palao, un saggio di Robert Gordon (denso e appassionante quanto un romanzo) e un articolone dove Bob Mehr raccoglie le testimonianze di alcuni fans, concittadini e seguaci illustri del gruppo. Tra questi Peter Holsapple, l'ex-compositore e chitarrista dei dB's, una di quelle band che al lascito dei Big Star debbono tutto, o quasi. "Mettevo alla prova le mie potenziali ragazze tramite l'ascolto di Radio City", dice Holsapple. Aggiunge poi di essersi sentito dire che i Big Star "assomigliavano agli America con troppe frequenze alte" (sic!), e di aver quindi messo alla porta in tutta fretta la responsabile di tale affermazione. Ha fatto bene. Perché i culti, piccoli o grandi che siano, vanno pure accuditi, coccolati, rispettati. Giovano al senso di appartenenza e aiutano a sconfiggere la solitudine... LEGGI LE RECENSIONE COMPLETA DAI NOSTRI ARCHIVI
"I Big Star mi emozionarono come nessun'altra band prima di loro. Alex Chilton e Chris Bell scrivevano canzoni rock & roll in modo così sincero e vulnerabile. Mi sembrava incredibile che nel 1973 si scrivessero canzoni in questo modo": e se lo dice il frontman dei Counting Crows Adam Duritz (dalle liner-notes di Underwater Sunshine), folgorato dagli album dei Big Star finalmente reperiti durante un viaggio in Inghilterra nei primi anni '80, chi sono io per affermare il contrario? In molti, magari fuorviati da una fase terminale di carriera all'insegna del blues garagista, del grezzo ruvidume country e del rockabilly di Memphis (più o meno stravolto, ma pur sempre di stretta osservanza tradizionalista), potrebbero ancora serbare un'immagine di Alex Chilton legata alla dicotomia "lei mi ha lasciato, canto il blues; lei me l'ha data, canto il pop" (copia omaggio del disco qui recensito a chiunque sappia individuare l'origine della citazione). Dicotomia peraltro degna di tutto il mio rispetto e della vostra attenzione... LEGGI LA RECENSIONE COMPLETA DAI NOSTRI ARCHIVI
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