In cerca di grazia e redenzione, coerente con quel lungo viaggio nella tradizione
gospel da cui è partita, la voce di Mavis Staples in One True Vine
è capace ancora di sorprendere e spiazzare, di mettersi in gioco, indossando i
panni scuri, introspettivi ed emozionali di un disco scarno, di rara intensità.
Se l'ondata di riconoscimenti e la riscoperta artistica che avevano fatto seguito
alla prima collaborazione con Jeff Tweedy (per il fortunato You
Are Not Alone) avevano rappresentato il grimaldello per conquistare
un nuovo pubblico, oggi Mavis è pronta per il passo ulteriore, più coraggioso
perchè mette alla prova non solo stile e forma, ma anche sentimenti e credenze
personali.
One True Vine si confronta con le domande ultime della vita,
con il senso di smarrimento e la ricerca di salvezza che questo folle mondo pone
insistentemente. Logico che dall'albero musicale di casa Staples cadano ancora
i frutti di un'educazione profondamente spirituale, lì dove anche i brani più
controversi e densi di interrogativi (la Holy Ghost tratta
dal repertorio dei Low, un'inedita Jesus Wept
scritta appositamente da Tweedy) vengono affrontati da Mavis da una prospettiva
diversa, quella di una donna che ha conosciuto il dolore, l'affronto, il rifiuto
e li ha combattuti con il sostegno di una fede incrollabile. Questa volta tuttavia
nel suo canto c'è meno impeto, meno irruenza (quella che caratterizzava in parte
l'ottimo ritorno di We'll Never Turn Back con Ry Cooder), scegliendo spesso i
toni della riflessione, finanche un'atmosfera dark e spartana che è la chiave
di volta dell'intero One True Vine. Un album dunque dal mood cupo e dai ritmi
cadenzati dove Jeff Tweedy ha lavorato costantemente di sottrazione: suona
tutto o quasi (c'è anche il giovanissimo figlio Spencer alla batteria) e dirige
la Staples in maniera disciplinata, contornandola delle voci giuste, di quelle
piccole nuance che rendono i brani capolavori di equilibrio.
Non c'è bisogno
di molto altro: Every Step sfoggia un pulsare
quasi primordiale, mentre le voci crescono e accerchiano la protagonista; i Funkadelic
rivisitati di Can You Get To That sono spolpati
all'osso, con uno splendido intreccio di voci (irresistibile il baritono di rimpallo
a Mavis) e un groove funky ribaltato in veste acustica; infine la Far
Celestial Shore firmata da Nick Lowe è una piccola meraviglia di confessioni
e speranze, in cui basta una chitarra minimalista a ricamare note soul e un manto
di voci (tra le altre la bravissima Kelly Hogan) per aprire le porte del paradiso.
Difficile davvero trovare un cedimento nelle trame di questo disco, così omogeneo
e "spietato", anche quando assume il carattere più scontroso di I
Like the Things About Me (brano del patriarca Pope Staples): rumoreggia
tra bassi e chitarre fuzz di scuola Wilco (un po' come se la presenza di Nels
Cline aleggiasse nell'aria...), non perdendo un centimetro della sua impronta
funk sudista, ma assumendo al tempo stesso un'immagine asciutta, in linea con
gli obiettivi della produzione.
È il sacrosanto riconoscimento del proprio
ruolo nella storia della black music di stampo gospel (Sow Good Seeds il
momento più rivelatore e legato al passato), ma senza ombra alcuna di un vuoto
trionfalismo: ci sono la disadorna bellezza e il senso salvifico della conclusiva
One True Vine a dimostrare esattamernte il
contrario.