Non è una questione puramente
anagrafica, almeno non solo; troppo facile e riduttivo per motivare la
natura intima di una musica come quella contenuta in Mississippi
Son. Personaggi come Charlie Musselwhite non hanno bisogno
di troppe analisi, come afferma egli stesso “è solo la parte istintiva
di noi”; essi, per dirla come qualche press-editor del tempo che fu, “hanno
suonato con tutti e visto di tutto, intrattenuto le platee delle arene
e quelle risicate dei bar, capaci di fare quattro chiacchiere nei backstage
dei blues festival più remoti, mai atteggiati a rock star, ma rispettati
da tutti”. Giocoforza, un disco come questo (il discorso potrebbe valere
per diversi tasselli del suo corposo catalogo) si discosta parecchio dalla
produzione media del panorama blues, senza volersi immergere in sterili
classifiche. A Charlie e a quelli come lui dunque, il compito di esprimere
un genere lontano, distante anche da quella proverbiale “epoca di mezzo”
urbana e fragorosa, che poi è l’epoca del nostro eroe; agli altri quello
di interpretare o re-interpretare, al di la dei risultati, qualche volta
non molto oltre la semplice cartolina.
Ci siamo lasciati avvincere da Charlie Musselwhite fin dall’inizio della
sua carriera, da Stand Back e per tutto il periodo in cui “le dodici
battute le trovavi nei campus e il blues lo salvavano i figli dei fiori”
(cit. da un’intervista); siamo restati definitivamente affascinati da
quello che ha fatto negli ultimi decenni, dischi come Continental Drifter,
Sanctuary,
Delta
Hardware, The
Well, o il più recente No Mercy In This Land, con Ben
Harper. Cose lontane nel tempo dicevamo; eppure si sente costante il tocco
dello sperimentatore puro, quel che di originalità assoluta che non riguarda
solo le improbabili posizioni delle armoniche che usa; si sente quel “magic
touch” anche quando alle prese con qualcosa come la hookeriana Hobo
Blues. Anche stavolta l’uomo di Kosciusko, Mississippi, scrive un
capitolo bellissimo, con la complicità di pochi e scelti comprimari, Barry
Bays al basso e Ricky Martin alla batteria; come sempre più di sempre,
poco significa la distinzione tra originali e “cover” (ma che termine
inadatto), dato che gli uni e le altre si fondono come in un lungo poema.
Dalla distesa e lucida Blues Up The River
(“I Won’t drink muddy water ‘til I’ve had enough”), alla minuziosa Stingaree,
percossa alla maniera proprio di John Lee con fraseggio di armonica e
chitarra all’unisono, fino alla menzionata “hobo”; è tutto un universo
personale e collettivo dove trovano spazio Remember Big Joe e
Crawling King Snake (la cui scrittura appartiene alla notte dei tempi),
sentito omaggio al maestro Big Joe Williams, l’aspra Pea Vine Blues
di Charlie Patton, la malinconica When The Frisco Left The Shade
o la risolutiva The Dark (Guy Clark),
se non la magnifica Darkest Hour:
stavolta Musselwhite rilegge Musselwhite. Quattordici, splendide tracce,
capitanate da quella Drifting From Town To Town che sembra voler
ribadire “vai, portami amico dove suonano del buon blues”. Possibilmente
da non perdere.