Ci
chiedevamo già in occasione di The
Black Dirt Sessions se il destino dei Deer Tick fosse quello
di perdersi fra le tante nuove leve del rock americano o se potessero ambire a
qualcosa di più, magari aggiustando la mira, liberi di sbagliare purchè proiettati
con coraggio nel limare la loro formula sonora. È assai probabile che Divine
Providence non risolverà il dilemma, anzi aumenterà i dubbi su una formazione
che sembra quanto mai schizofrenica nel cercare una via d'uscita alla sua espressività.
Infatti, dopo gli esordi promettenti e i doverosi entusiasmi di Born
on a Flag Day, il disco che li proiettò fra le next big thing
del rock'n'roll tradizionale, era stato proprio il citato The Black Dirt Sessions
a segnare un passo indietro verso la dimensione più intima della scrittura del
leader John McCauley III. Coraggioso, forse anche necessario per sé stesso, un
po' incastrato, messo all'angolo per tutti gli altri. Nel frattempo è spuntato
il progetto dei Middle Brother, un canto generazionale messo insieme con altri
talenti affini (rispettivamente quelli di Taylor Goldsmith dei Dawes e Matthew
Vasquez dei Delta Spirit), lì dove con ogni probabilità la dimensione da folksinger
andava sfogata maggiormente.
Ecco perché Divine Providence, richiamando
fin dal titolo l'aria di casa nel piccolo Rhode Island, in uno studio casalingo,
torna all'ovile, ovvero sia in prevalenza al rock più sguaiato e alle radici di
una band che dentro la tradizione si tuffa partendo dall'irruenza del punk. Questi
per lo meno i segnali inequivocabili lanciati nella prima parte dell'album, una
sorta di ubriaco, veemente rimbrotto con cui McCauley e soci fanno tabula rasa
del recente passato, mettendo sul piatto una caciara degna di un pub all'ora di
punta. L'impressione in effetti è che il boogie cafone di The
Bump introduca più una notte brava e alticcia, registrata con qualche
amico, che non un disco con una meta precisa. Le idee stanno a zero insomma, se
vogliamo tradurre tutto in termini spiccioli: Funny Word
e Something to Brag About girano dalle parti
dei più rozzi Hold Steady, ma con risultati troppo scolastici, Main
Street va a riprendersi i maestri di questi ultimi, The Replacements,
mentre Let's All Go to the Bar dovrebbe essere
una divertente caciara che schiaccia in fondo al bar i Pogues e una qualsiasi
rock'n'roll band da dopo lavoro, con esiti che rasentano il comico.
Per
fortuna a partire da metà percorso si muove una sensibilità differente, specialmente
sul lato della ballata tristanzuola e spolverata di country: Chevy
Express potrebbe piacere ai Wilco, Now It's
Your Turn si adagia su una calda melodia al pianoforte, mentre la scopiettante
tempra pop Walkin Out the Door richiama persino
gli Okkervil River più inguaiati con i sixties. Anche il singolo Miss
K. regala tre minuti graziosamente retrò. Si tratta però di fuochi
fatui, in mezzo a brani che paiono esperimenti un po' strampalati (Make
Believe è uno strambo blues in minore che incrocia per strada tastierine
new wave) o scherzi già conosciuti (una ghost track che finisce nel solito calderone
del country da sbronza). Troppa confusione sotto questi cieli. (Fabio Cerbone)
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