Alla faccia dei buoni auspici. Allora, il "deer tick" (alla lettera "zecca
del cervo") è un parassita, meglio conosciuto come "zecca dalle gambe nere", che
procura la neuroborreliosi, ovverosia un malfunzionamento del sistema nervoso
causato, appunto, dall'infezione da batteri. Chiaro, quindi, che se un gruppo
decide di chiamarsi proprio così, Deer Tick, lo fa un po' alla David Lynch,
cioè per far intravvedere abissi di repellenza, malattia e orrore nascosti dietro
una facciata di apparente ordine bucolico. In realtà, di ordinato, nella musica
e nel profilo pubblico dei Deer Tick di John Joseph McCauley III (chitarra
e voce), Andrew Grant Tobiassen (sei corde solista), Christopher Dale Ryan (basso)
e Dennis Michael Ryan (tamburi), tutti originari di Providence, Rhode Island,
non c'è poi molto. C'è invece, nelle loro canzoni, un senso di minaccia, segnali
nevrotici di un collasso imminente, un sentore di rovina che serpeggia costante:
vuoi per la voce acuta, scartavetrata e stridula di chi canta, vuoi per quello
che canta (amori perduti e vite marcite, soprattutto), vuoi per il suono - un
alt.country ora bucolico ora punkeggiante, sospeso tra strappi e scossoni, quiete
e tempesta - dentro cui è incartata la voce.
Ascoltando Born On
Flag Day, secondo album della band dopo l'esordio War Elephant di due
anni fa, sovvengono i paesaggi operai e desolati di certo Midwest immortalato
da John Carpenter, l'incombenza stregonesca dei boschi del Maryland, il New England
terrorizzante di HP Lovecraft - non perché si tratti di un disco metal, o dark,
o perché nei brani si raccontino storie di zombi o riti leggendari. E' altresì
la musica, a distillare tutte queste visioni, una musica che in un caso soltanto
(Straight Into A Storm) sceglie di attenersi
a un canonico "Buddy Holly incontra l'honky-tonk" (oddìo), mentre nel resto del
programma prende Bob Dylan, Hank Williams, Bruce Springsteen, John Prine e Tom
Petty per rivestirli di una coltre di inquietudine elettrica, in un susseguirsi
di dettagli sorprendenti e in violento contrasto tra loro (penso alla voce angelica
di Liz Isenberg, del tutto scollegata da quella di McCauley, in Friday
XIII, o alle liriche raggelanti di The Ghost,
che usa un buffo e squinternato country-rock per evocare un avvilito paesaggio
mentale di solitudine e rassegnazione).
Questo non significa che McCauley
e soci non sappiano scrivere un brano nell'accezione più classica del termine:
Little White Lies e Song
About A Man, per dire, non dispiaceranno affatto a chi ha seguito con
trepidazione l'ultima fase della carriera di Conor Oberst, ma è chiaro che il
cuore di Born On Flag Day va ricercato nella stravolta cavalcata grungey dell'iniziale
Easy (delirante meraviglia tra rintocchi western
ed esplosioni punk'n'roll) o nell'incontinenza elettrica del capolavoro Smith
Hill, dove sembra di ascoltare gli Smashing Pumpkins di Billy Corgan
alle prese con una romanticheria blue-collar. Poco più di trenta minuti in tutto,
compresa una Goodnight Irene in chiave di
traccia nascosta (e di sicuro realizzata con parecchio alcool in corpo), e niente
da buttare. Una manna, per gli assertori dell'essenzialità. Una bella soddisfazione
- dico io - anche per chi pensa che il fascino maggiore, in un disco, stia sempre
nelle suggestioni che sgusciano tra gli spigoli delle canzoni. Born On Flag Day
possiede canzoni e spigoli a sufficienza per farvi incuriosire a lungo (Gianfranco
Callieri)