Cercavamo conferme da questo terzo disco dei Deer Tick, sia positive
per quanto sono riusciti a fare con i due album precedenti, ma anche negative
magari, causa alcune nostre perplessità sul fatto che possano davvero diventare
gli eredi dei Drive By Truckers nel segnare la via di un southern rock moderno,
digeribile non solo dai rudi rockers nati a pane e Lynyrd Skynyrd. Invece The
Black Dirty Sessions è un disco che si preannuncia discusso, discutibile,
e farà probabilmente ancora discutere in futuro. Dimenticatevi Born
on Flag Day dunque, quella era un'altra storia, e anche un po' un'altra
band, visto che la chitarra solista di Andrew Grant Tobiassen che tanto era piaciuta
non c'è più, e al suo posto è arrivato Ian O'Neil, acquistato dai Titus
Andronicus nel corso di una tournèe comune. Ma questo cambio di guardia in questo
caso non dovrebbe poi tanto pesare, perché molte di queste sporche sessioni provengono
proprio dalle stesse sedute che hanno partorito il precedente disco, e questo
non chiarire bene se l'ultimo sia da considerarsi un album di outtakes (il sound
scarno e poco arrangiato sembrerebbe avvalorare la tesi) o il terzo album a tutti
gli effetti della band non aiuta il giudizio.
In ogni caso questi brani
sono stati assemblati con un preciso intento, quello di mostrare il lato più oscuro,
intimista, e in parole semplice meno rock della band. Una scelta coraggiosa, arrivata
proprio quando anche ripetersi gli avrebbe garantito forse ben più onori, e soprattutto
pericolosamente dipendente dalla capacità del leader John J. McCauley III
di rivelarsi un songwriter di prima categoria. L'onore al coraggio non salva però
il disco dallo scadere nella noia, proprio perché alcune ballate acustiche come
The Sad Sun o Twenty
Miles non si reggono da sole sulle gambe, e quando provano la via della
piano song crepuscolare (Goodbye Dear Friend
o la finale Christ Jesus) trovano il sound
ma non il tema immortale. Fallimento? Assolutamente no, perché il problema del
disco è solo la fretta e l'aver magari tentato di battere terreni di folk sofferto
(Hand In My Hand) che i Felice Brothers per
esempio calpestano già con ben altri risultati (o addirittura I
Will Not Be Myself ricorda gli Alice In Chains più tormentati).
Ma qui e là le canzoni che giustificano il loro successo ci sono, vanno trovate
nelle scarne trame folk di Piece by Piece and Frame by
Frame, nella ballata When She Comes Home
e nel bellissimo crescendo in pure stile southern-rock band di Mange.
Per il resto ci mettono passione, ma anche molto mestiere (Blood
Moon sa un po' di blues notturno scritto con un manuale), e alla fine
la sensazione è che questo deciso spostare il baricentro della loro musica verso
un mood da indie-rocker penalizza quel bell'impatto da vera band dimostrato in
precedenza. Si prendano il giusto tempo ora, è probabile che qualcuno troverà
splendide queste invocazioni spirituali (sentire Choir
Of Angels per credere), ma è molto più probabile che quest'album raffredderà
gli entusiasmi. Meglio così, fra qualche anno sapremo se era destino che si perdessero
o se stavano solo scaldando i motori. (Nicola Gervasini)