Sta letteralmente vivendo una seconda giovinezza, dopo il periodo interlocutorio
a cavallo tra gli anni '80 e '90, quel poco ortodosso dottore che di vero nome
fa Malcolm John "Mac" Rebennack, in arte è noto come Dr John, ha ormai
la stessa età (non verdissima) di mio padre e in materia di salute e sostanze
acconce a mantenerla ha idee radicalmente diverse dal ministro Ferruccio Fazio.
Mi pare anzi che, negli ultimi tempi, oltre a frullare - al solito - blues, zydeco,
boogie woogie, jazz e rock'n'roll con estro sulfureo e impagabile, sia pure riuscito
a bilanciare come raramente gli era capitato le principali fonti d'ispirazione
della sua musica. Vale a dire la tradizione mistica, spiritista e cabalistica
del sottobosco voodoo di New Orleans e dintorni da un lato, e dall'altro l'amore
sconfinato per il jazz e la canzone americana d'antan, di preferenza risalenti
al periodo incastonato tra il primo novecento e l'immediato dopoguerra. Il sinistro,
strepitoso N'Awlinz:
Dis Dat Or D'Udda era stato un paragrafo forse irripetibile nella discesa
agli inferi della prima categoria, il mezzo capolavoro Mercernary,
consacrato al repertorio di Johnny Mercer, aveva espresso con dolcezza ed eleganza
straordinarie la profonda, viscerale passione per la seconda.
Dopo City
That Care Forgot ('08), struggente quanto irrisolta dichiarazione di vicinanza
alla terra devastata dall'uragano Katrina (che il tetragono correttore automatico
di Word insiste a trasformare in "Latrina", e forse un motivo ci sarà), il nuovo
Tribal provvede a mescolare i due aspetti dell'arte del dottore
con rinnovata intensità. Di nuovo accompagnato dai Lower 911 e da un manipolo,
convocato per l'occasione, di altri quindici musicisti (più un'intera sezione
archi), Dr John mette in piedi, dedicandolo allo scomparso Bobby Charles, l'ennesimo,
irrinunciabile caleidoscopio di suoni dove il ventre oscuro della Louisiana e
quanto ascrivibile al matrimonio tra rock e jazz confluiscono senza soluzione
di continuità, in pratica creando canzoni il cui genere d'appartenza non può essere
altro se non quello istituito dal suo artefice. Laviche colate di funk (Change
Of Heart, Whut's Wit Dat, When
I'm Right) si intrecciano a splendide ballate addirittura flirtanti
con partiture classiche (Lissen At Our Prayer),
rhytm'n'blues che avrebbe potuto architettare un Randy Newman ebbro di rhum (Only
In America) trascolorano in un ruggenti flussi di coscienza à la Van
Morrison (accade in una title-track somigliante a un ipnotico rituale occulto)
e costituiscono le punte di diamante di un album che si apre - non dimentichiamolo
- con un brano intitolato Feel Good Music,
tanto per capire dove si va a parare.
Al di là del consueto trionfo di
sax e trombe, ritmi insinuanti, mid-tempos strappamutande, femmine che disegnano
traiettorie vocali provviste della sensualità di un amplesso particolarmente torrido
(ascoltate il sensuale pachuco soul di Jinky Jinx),
rasoiate sudiste di sei corde che spuntano dove meno te lo aspetti (occhio alla
slide vorticosa di Derek Trucks sull'incendiaria Manoovas),
diversi brani scritti a quattro mani col venerabile Allen Toussaint, Tribal
ci consegna un Dr John strepitoso cantante, segnale ulteriore (semmai ce ne fosse
stato bisogno) di come certi artisti invecchino con la grazia e la struttura dei
liquori di pregio. Groovy e trascinante, incalzante e teneramente raccolto, Tribal
è uno dei migliori capitoli della lunga storia del dottore di New Orleans. Al
quale auguriamo (ma è più che altro un auspicio rivolto a noi stessi) altre cento
di queste prescrizioni. (Gianfranco Callieri)