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29/05/2006
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Dr.
John Johnny Mercer è stato uno
dei più prolifici "tunesmith" americani, ma il suo nome non è di quelli
che uno assocerebbe immediatamente alla New Orleans zingara, stregonesca
e funky di Mac Rebennack, meglio conosciuto come Dr John. Diciamo
che sarebbe più semplice immaginarlo riletto dall'ultimo Rod Stewart,
o da uno qualsiasi di quei marpioni che periodicamente riscoprono il canzoniere
americano a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale e le sue
propaggini appena successive allo scopo di reinterpretare canzoni classiche
e note più o meno a tutti con gran dispendio di archi e zucchero. In Mercernary
troverete tredici canzoni, dieci delle quali portano la firma di Johnny
Mercer, ma neanche un pizzico di zucchero (figurarsi gli archi); odore
di zolfo, quello sì, abbinato ai latrati jazzy e inconfondibili del Dottore,
che sembra aver messo mano al repertorio di Mercer al solo scopo di piegarlo,
peraltro senza sforzo alcuno, al proprio canone espressivo. Perché gli
ultimi dischi di Dr John assomigliano, mutatis mutandis, a quelli di Willie
Nelson: sono cioè i dischi di due grandi protagonisti della musica popolare
americana che, nulla più dovendo dimostrare a chicchessia, si sentono
liberi di fare il comodo loro senz'altro obiettivo da perseguire se non
quello del divertimento e della finezza, dell'eleganza e della misura
dell'artigianato. Tra gli '80 e i '90 il Dottore aveva in effetti subito
un piccolo appannamento creativo, oggi tuttavia è tornato a regalare grande
musica, soprattutto con il monumentale N'Awlinz:
Dis Dat Or D'Udda ('04) - da annoverare tra le sue cose più
belle di sempre. Mercenary si colloca ai medesimi, altissimi livelli,
dispensando a piene mani un New Orleans sound speziato di jazz, funky
e rhytm'n'blues che la classica backing-band del dottore, i Lower 911
(David Barare al basso, John Fohl alla chitarra e Herman
Ernest III ai tamburi), rifinisce con classe impareggiabile.
Come detto, dello spirito originario di Johnny Mercer qui sopravvive poco,
dacché è davvero difficile immaginarne l'autografo in calce al funk assassino
di Blues In The Night, al blues strascicato di Personality
(dove giganteggia la tromba di Charlie Miller), alla lussuria soul
di una Moon River completamente stravolta o al trattamento febbricitante
cui viene sottoposta una That Old Black Magic carica di elettricità.
Il Dottore, poi, ci mette del suo architettando i sulfurei bordoni d'organo
di una I Ain't No Johnny Mercer a dir poco trascinante o trasformando
Hit The Road To Dreamland in una lullaby da bordello impregnata
di umidore ed esotismi. Mi taccio circa il sopraffino struggimento pianistico
dello strumentale I'm An Old Cow Hand perché rischierei di esagerare
con i superlativi, ma voi cercate di tenere a mente il fatto che c'è in
circolazione un nuovo disco del Dottore: sebbene costui sia un "medicine-man"
un po' particolare di sicuro non sbaglia mai una prescrizione. |