Niente
è più entusiasmante del delinearsi di quelli che vengono chiamati, con scarsa
fantasia, "stili regionali". L'appartenenza territoriale disegna una sorta
di sommario ideale delle caratteristiche che definiscono un genere; entusiasmante
soprattutto a posteriori, quando è possibile, nonché intrigante, operare le varie
differenziazioni; utile, per cultori, cronisti e archivisti, che possono così
circoscrivere i vari bagagli di influenze. La storia, del rock, del blues, del
jazz, della musica popolare tutta, è zeppa di esempi. Apparentemente, non diceva
nulla di nuovo lo storico Charlie Gillette, quando diceva che "Lo stile regionale
riflette per intero l'humus della zona entro il quale è concepito". Logico
pensare a una città come New Orleans, con i suoi incroci culturali e umani, storici
e artistici. La città della Louisiana non riflette una situazione di melting-pot;
è il melting-pot per eccellenza, è abituata alle mescolanze più disparate. La
sua stessa vicenda, da colonia francese, poi in mano agli spagnoli, indi parte
delle latitudini più calde degli Stati Uniti, appare essere emblematica, con tutti
i riti propiziatori che il caso richiede. A New Orleans ("Non è la capitale
della Louisiana, ma è come se lo fosse", dice Gianni Del Savio) si incontrano
creoli, italiani, spagnoli, caraibici. Qui è nato Louis Armstrong e qui si è consumata
l'epopea di Storyville; il cibo è piccante come la musica e qui si sono delineate
le prime frasi essenziali del "jass" e qui, dalla seconda metà degli anni quaranta
si è sviluppata una forma autoctona di rhythm'n'blues, con tutti i suoi personaggi
pieni di calore e di colore, da Fats Domino ad Arcibald, a Smiley Lewis a Lee
Allen a Professor Longhair a Dave Bartolomew; un grosso capitolo della storia
della musica popolare statunitense, ruotante attorno al "Vieux Carrè" e agli studi
di Cosimo Matassa, i J&M. Dr. John è parte di questa storia; perde qualche
battuta in senso cronologico, ma ci entra di diritto a partire dalla fine dei
cinquanta. Allo stesso modo della città, egli stesso è un incrocio stilistico;
saprà vitalizzare il r&b con buone dosi di funky e voodoo, riuscendo ad arricchire
la sua musica con le scenografie del "mardi gras". E straordinario melting-pot
è questo bellissimo N'Awlinz Dis Dat Or D'Udda; una frase idiomatica,
puro slang del sud. Parte con l'eterna When The Saints Go Marching In (con
Mavis Staples) e arriva al St. James Infirmary (con Eddie Bo), stravolta
e insanamente funky. E' pieno di qualsiasi cosa la vostra mente possa produrre
con un tasso insostenibile d'umidità. Trasuda blues, gumbo e voodoo da tutti i
pori, che sia You Ain't Such a Much, con Willie Nelson e Snooks Eaglin
o Hen Layin' Rooster con B.B. King e Clarence "Gatemouth" Brown. E' come
un giro notturno per Algiers, dove si può incontrare Marie Laveau, ma anche
Randy Newman con cui duettare sulla sarcastica I Ate Up The Apple Tree;
soprattutto è dominato da quell'inimitabile piano "rollickin'" che sa tanto di
Professor Longhair, Lee Dorsey e James Booker; che è poi lo stile del vecchio
Mac Rebennack, colui che (insieme a un'impressionante serie di ospiti; oltre a
quelli citati, Cyril Neville e la Dirty Dozen Brass Band) vi conduce in città
in maniera inconfondibile. Sulle note della splendida Life Is A One Way Ticket.
Che poi è la filosofia di "N'Awlinz". . (Roberto Giuli)
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