C'è un episodio fondamentale che raggomitola un'esistenza, dipanandola
secondo le coordinate di un destino forse già scritto, accettato e poi
declinato seguendo le coniugazioni di un presente da vivere e (con)dividere.
Nel lontano 1986 Sam Baker, allora poco più che trentenne, con
una valigia rigonfia di speranze ma parca di certezze, prese un treno
sulla strada ferrata peruviana per poi ritrovarsi miracolato dopo un attentato
che costò la vita a sette persone, alcune sedute proprio nel suo stesso
scompartimento. I danni non si limitarono a un semplice shock, costando
al giovane ben più di una menomazione permanente. Si può dire che la sua
vita da quel momento abbia visto rincorrere i giorni nell'attesa di una
risposta per esorcizzare quel male irragionevole del quale si è trovato
vittima, pur sempre fortunata per poterlo raccontare.
Cotton è il coronamento di una trilogia iniziata nel 2004
con Mercy,
del quale porta lo stesso nome. Il seguito, Pretty
World (2007), non aveva fatto altro che solidificare le notevoli
impressioni dell'esordio, un country folk anacronistico occhieggiante
a Townes Van Zandt e Guy Clark, che con lui condividono radici texane
e una dote di storytelling fuori dal comune. Voce roca e strascicata come
le esistenze che racconta, storie di ordinaria umanità che di straordinario
hanno solo la difficoltà di sbarcare il lunario del quotidiano, sofferenze
e solitudine, malinconie e riflessioni: musica autenticata dall'esperienza,
una lotta che si sublima in ballate inconsuete, impregnate di poesia e
naturalezza. "We are love, we are hope, we are stories" le sue parole,
che trovano nell'ultimo capitolo di un percorso senza soluzione di continuità
il punto focale di un raggiungimento sofferto e cercato: il perdono.
Registrato a Franklin, Tennessee, e prodotto insieme a Tim Lorsch
(grandissimo con gli archi a coronamento di un suono limpido e pulito),
Cotton prosegue la strada maestra che perimetra gli angoli, gli argini
della vita che non vengono bagnati dal flusso che conta. L'eco spirituale
si affaccia spesso tra i solchi, quasi come ultima (e unica) possibilità
di redenzione (Palestine è un esempio
in questa direzione, una canzone suddivisa in due parti speculari che
racchiudono un messaggio tutto da decifrare). Ci sono le fatiche delle
piantagioni di cotone (Cotton, un
folk blues che assume sembianze spirituals), mennoniti in cerca di una
rotta (Mennonite, talkin' ballad ricucita
dal violino), donne sole, derelitti, ballate in punta di dita che custodiscono
un'intensità quasi irreale, spesso centellinata dal piano di un grandissimo
Steve Conn. Due gioielli, Signs
e Snow, la prima una sorta di scorribanda
tra i "segnali" che si frappongono tra noi e il nostro destino, che spesso
fraintendiamo ("they are on the corner every day") se non diamo loro il
giusto peso e la giusta proporzione, la seconda una superba descrizione
dell'inverno, un quadretto che riluce tutta la poesia di cui Sam Baker
è capace. Una lunga coda pianistica ammanta entrambe le composizioni per
sfiorare e raggiungere le porte della perfezione.
Non ci sono brani minori, in fin dei conti tutti respirano la magia dell'ispirazione
e un cuore puro: ascoltate Say The Right Words,
una traccia interamente strumentale che ci aiuta a capire che spesso il
dono della parola (del quale abusiamo) deve cedere il passo a qualcosa
di più grande, il silenzio, espressione candida e pura di uno stato d'animo
che non ha bisogno di accompagnamento. Una sola cover, Who's
Gonna Be Your Man, traditional folk risalente ai primi del
Novecento. Il resto è tutta farina del suo sacco, qualità eccellente e
garantita. Tra i best dell'anno. (David Nieri)