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inserito
06/10/2005 | |
Mercy
non è un titolo così diverso da Mercy Now, e le assonanze tra Sam Baker e
Mary Gauthier non si fermano alle intestazioni dei loro album. Certo, l'uno è
un esordiente e l'altra no, l'una è cupa e pessimista mentre l'altro sembra credere
a un intima possibilità di redenzione (soprattutto spirituale), eppure entrambi
raccontano storie vive e brucianti di un'umanità relitta, marginale e perdente
avviluppata nelle trame di un crepuscolo country-folk che è più scheggiato di
rock nel caso della Gauthier e più rootsy in quello di Baker. Dovendo soprattutto
assolvere al compito di fornire alcune coordinate stilistiche attendibili, il
paragone può terminare qui: proseguire oltre sarebbe ingiusto nei confronti di
un album e di un autore comunque dotati di un respiro personale e di una poetica
autosufficiente. Mercy, registrato a Nashville da Baker e da un gruppo di amici
fidati grazie all'interessamento di Walt Wilkins e con il contributo di
Jessi Colter e Kevin Welch tra gli altri, racconta in toni dimessi
(ma non per questo patetici o di basso profilo) le storie nascoste di un'America
rurale, profonda e profondamente ferita, quella che non trova spazio nei talk-shows
o nei telegiornali se non quando un uragano provvede a devastarne le vite. Uso
il termine "raccontare" non in senso casuale, dacché se c'è un'arte nella quale
Sam Baker sembra primeggiare è proprio quella dello storytelling, che raggiunge
punte di assoluta eccellenza nella parabola laica di Iron e nel ritratto
di domestica desolazione tratteggiato in Thursday. Per dare un suono e
una voce a personaggi che sentono "un vuoto dentro come una canzone country
/ molto più triste di quelle che passano per radio", per dare il giusto colore
al cielo sterminato che sovrasta un gruppo di ragazzi intenti a giocare a baseball
di sabato mattina, per evocare il dolore di una donna che scrive sulla sabbia
il nome di un amante fuggito aspettando che le onde lo cancellino, Baker si affida
all'austera efficacia di una ballata roots modulata, con le particolari eccezioni
di Change e della title-track conclusiva e strumentale, lungo un disco
intero. Canzoni lunghe e scarnificate, dettagli narrativi capaci di evocare un
mondo intero di sconfitte e rimpianti, un rantolo vocale cupo e arrochito, diversi
ammiccamenti (peraltro mai gratuiti o fuori luogo) alla concretezza squisita di
Townes Van Zandt, di Guy Clark, di John Prine: questi gli ingredienti di un lavoro
che risale al 2004 ma che fareste cosa buona e giusta ad ascoltare in qualsiasi
anno. |